Il potere del procuratore
Gratteri è il magistrato più temuto d’Italia: politici, giornalisti ed editori tutti in silenzio

Chi ha paura del dottor Nicola Gratteri? Tanti, garantito. Ci sono i magistrati, i politici, ma soprattutto gli intellettuali e i giornalisti con i loro impavidi editori. Ci sono quelli che, in modo un po’ snobistico, lo scansano perché il procuratore di Catanzaro, pur osannato e incensato con parole alate su giornali e tv per le sue gesta eroiche contro la ‘ndrangheta, è alla fine considerato solo come una specie di Maradona dei poveri. Un parvenu che viene dalle favelas e puzza ancora di sudore e di miseria. Applausi dagli spalti certo, ma andarci insieme a cena, no. «Se poi, driin, si aggiungesse inaspettato a tavola il dottor Gratteri, allora via, mollare lì la carbonara e correre alla minestra della Caritas», ironizza (ma mica tanto) Andrea Marcenaro nella sua imperdibile Version sul Foglio, dopo aver magistralmente illustrato la ricetta del suo piatto preferito.
Nella carovana degli snob, ma in questo caso lo snobismo ha una decisa caratura politica, ci sono tutti quelli che non vogliono Nicola Gratteri a Milano. Già nel 2016 quando lui aveva presentato domanda, fu spedito velocemente a presiedere la procura di Catanzaro. Non lo vogliono per due buoni motivi. Il primo è molto ben spiegato sul Riformista di ieri da Ilario Ammendolia, che lancia un grido disperato in favore della sua terra di Calabria e in sintesi dice che a nessuno importa niente di quella regione, tanto che lasciano che i rappresentanti dell’antimafia possano aggiungere disastri a quelli già gravissimi della ‘ndrangheta. Come a dire che arresti arbitrari e poi smentiti dai giudici, blitz scenografici ma spesso fondati sul nulla o su pochissimi indizi (gli esempi sono ormai tantissimi e li raccontiamo ogni giorno) vanno bene per i calabresi, ma non per quelli con la puzza sotto il naso del nord Italia.
Tutto vero, ma c’è anche un secondo motivo per cui Nicola Gratteri non può venire a Milano. E perché e a chi fa paura. Lo temono i suoi colleghi, prima di tutto. Ma anche i politici che governano la città. Perché il capoluogo lombardo è da qualche tempo un po’ quel che era l’Emilia rossa fino a che l’elezione del sindaco di Bologna Guazzaloca non ruppe gli schemi di una società chiusa in cui tutti andavano a braccetto con tutti, il padroncino con l’operaio e il sindaco con il procuratore. La storia che abbiamo raccontato del siluramento del capo dei vigili di Milano, le vicende di Eataly, di Sea, dell’Expo, dei ripetuti ringraziamenti di Matteo Renzi alle toghe, raccontano una sorta di unità di intenti, qualcosa che è più di pura sintonia di pensiero politico. E la storia, ormai antica ma difficile da dimenticare, di Mani Pulite racconta dei semini che sono stati piantati dalla corrente sindacale di Magistratura Democratica non solo in Procura ma anche in città. E che sono germogliati, negli ultimi anni, di procuratore in procuratore, di sindaco in sindaco.
Quando nel 2016 il Csm doveva nominare il nuovo procuratore di Milano, se ne occupò Luca Palamara, che, come racconta nel suo libro, incontrò Francesco Greco, con cui ebbe subito grande intesa, e ne sostenne la candidatura. Nessuno degnò di attenzione Nicola Gratteri, allora. Ma se lui arrivasse oggi sarebbe una bomba. E tra i sostituti milanesi c’è qualcuno, anche quelli di sinistra, che quasi se lo augura, pur di spezzare il clima da “Emilia rossa”. Sarebbe concepibile, in Lombardia, la presenza di uno che improvvisamente usasse quei metodi da sceriffo che in Calabria gli sono consentiti, a costo di decapitare nuovamente le istituzioni come già successo ai tempi di tangentopoli? Sì, in un certo senso sarebbe concepibile.
Il terreno “culturale” è già arato. In fondo non gli è stato consentito di scrivere la prefazione a un libro i cui autori, il magistrato Angelo Giorgianni e il medico Pasquale Maria Bacco sostengono tesi complottistiche sugli ebrei che governano il mondo e che in piena pandemia negano l’esistenza del virus e persino delle bare di Bergamo? Si, gli è stato consentito, nonostante, dopo la scoperta di Luciano Capone, il Foglio se ne occupi tutti i giorni e noi stessi e pochi altri ne abbiamo scritto. Ma la cosa preoccupante, anche se molto comprensibile, è che quella prefazione non abbia destato scandalo. E perché la mentalità paranoica che sta dietro certe affermazioni non induca il sospetto che anche alcune gesta siano frutto della stessa ispirazione. Sabato scorso Giuliano Ferrara ha barrito. E ha chiamato per nome e cognome direttori di grandi quotidiani e conduttori di famosi talk, intimando loro di occuparsi di «una maleodorante e putrida chiassata negazionista e antisemita». Gli ha risposto uno che non era stato chiamato in causa, il direttore del Giornale, Sandro Sallusti, e ha detto semplicemente che il re è nudo. Non hai capito, caro Ferrara –scrive- che tutti hanno paura del magistrato “più temuto e coccolato” d’Italia? Hanno paura i giornalisti, tremano gli intellettuali, si fanno la pipì addosso gli editori. Così, se neghi la gravità del covid non puoi fare l’insegnante o l’infermiere, ma il procuratore sì. Ed è proprio così.
Non si può scalfire la reputazione di Gratteri, perché lui ha nelle mani uno strumento formidabile per polverizzare la reputazione di tutti noi, il suo potere di manette. E non è un caso che, uno di quelli chiamati alla lavagna da Ferrara, Gian Antonio Stella, abbia ieri risposto con un breve articolo in cui, un po’ come si fa con i bambini, ha dato un buffetto a Nicola Gratteri, dicendogli che “l’ha combinata grossa”. Il tono è quello del papà che ha già perdonato. Anche perché, dice nelle due righe finali, in fondo le frasi peggiori i due autori Bacco e Giorgianni non le hanno scritte nel libro, ma le hanno dette alla Zanzara. Che, come sappiamo, è un programma satirico.
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