Con Draghi, ma con Conte. A patto che ci sia continuità con il governo precedente. Le condizioni dell’accordo prematrimoniale con cui il Movimento sposerebbe il governo Draghi lasciano capire – al netto dell’ottimismo che ieri sera si registrava anche al Quirinale – che non proprio d’amore si tratta. Ma il matrimonio s’ha da fare. E il sensale numero uno si chiama Beppe Grillo. Ieri avrebbe fatto decine di chiamate per convincere tutti ad allinearsi con un governo di responsabilità nazionale, anche al fine di «salvaguardare l’agenda delle cose fatte da noi».

Una posizione già assunta da martedì dal rigoroso silenzio assunto dal blog di Grillo, che come ricordava ieri Fabio Massimo Castaldo, vice presidente del Parlamento europeo, è l’unica voce ufficiale del Movimento, l’house organ. Qualcuno aveva creduto alla fake news di un Beppe Grillo tonante contro Draghi, una trappola orchestrata dalla macchina della disinformazia che ormai tutti – o quasi – sanno bene dove si annidi e come funzioni. Per la serie Nuovo cinema Casalino, ecco che il regista delle trovate di Palazzo Chigi ne fa un’altra delle sue: fa piazzare un tavolino nel mezzo di piazza Colonna dove mette a parlare Conte, in piedi. Giornalisti e operatori corrono, allertati dai Whatsapp del portavoce.

Casalino sovrintende le operazioni, chiede che l’inquadratura non abbia come sfondo palazzo Chigi perché, spiega, «non è solo un intervento istituzionale». Il presidente del Consiglio uscente mobilita tutto quel parapiglia di fotografi e telecamere per dire due cose che non poteva esprimere altrimenti: dà il suo via libera al governo Draghi, e fa sapere che lui c’è. Se proprio c’è da salvare il Paese, potrebbe rinfoderare la pochette e rimettersi in gioco. «Auspico un governo politico che sia solido e che abbia quella sufficiente coesione per poter operare scelte politiche, perché le urgenze del Paese hanno bisogno di scelte politiche, non possono essere affidate a tecnici», dice colui che era stato chiamato al governo come tecnico, fuori dai partiti.

Anche nelle chat del Movimento si è capito ormai che la realpolitik ha vinto. I governisti di Luigi Di Maio hanno avuto la meglio sui barricaderi. I numeri d’altronde parlano meglio di mille parole. Gli eletti del M5S il 4 marzo 2018 erano 227 alla Camera, al netto dei 19 che poi hanno preso altre strade. Voltando le spalle a Draghi il precipizio verso il voto sarebbe inclemente: fatti i conti con le tendenze elettorali, se il Movimento flettesse, come indicano i sondaggi, dal 32% al 14%, i parlamentari rieletti sarebbero 124; avendo insistentemente votato per l’autocastrazione con il referendum che li riduce del 36%, ne avremmo – votando domani – non più di 78. Nessuna motivazione migliore di questa, per allinearsi comodamente dietro a Di Maio.

Persino a Crimi l’hanno spiegata bene. Ieri è sceso anche lui a più miti consigli: «Sabato prossimo andremo alle consultazioni con il presidente incaricato. Ascolteremo attentamente quanto avrà da dirci e porteremo al tavolo il M5s con la sua storia, le sue battaglie e le sue visioni. E, chiaramente, fra queste il reddito di cittadinanza è uno dei punti fermi. Perché, oggi più di ieri, nessuno deve rimanere indietro». Una bandierina la deve piantare, e forse quella del reddito è tra quelle più accettabili. Sul blog di Grillo campeggia adesso la campagna europea, blustellata: “Estendiamo il reddito a tutta la cittadinanza europea”. Le battaglie sono quelle di sempre ma la veste è rinnovata, il contesto è europeistico.

Mario Draghi non li ha ancora incontrati ma già si inizia a parlare la sua lingua, tra i pentastellati. E non a caso Rousseau scompare dai radar dei grillini. Non viene citato neanche di striscio. “Politica, soluzione politica”, tamburella sul popolare Clubhouse, il social network in voce, una frequentatissima room politica del Movimento. E chi non si adegua, Di Battista e Lezzi, si accomodino pure fuori. Loro minacciano di uscire? La porta è aperta. Ma nelle ultime 24 ore tacciono i tamburi di guerra, anche quelli dei dibattistiani. Non una dichiarazione, un tweet, un commento su Facebook.

Certo è che la posizione delle forze politiche, indicata trasversalmente, sembra suggerire a Draghi la strada di un governo con innesti politici, sul ‘modello Ciampi’. E sembrerebbe questa la via al momento prevalente: un governo tecnico con ministri di area, uno massimo 2 per ogni forza di maggioranza. L’audax quaestio adesso è una: cosa far fare a Conte, e in quale quota verrà calcolato. Sarà uno dei due nomi del Movimento o addirittura un primus inter pares, incarnando l’alleanza tra 5 Stelle, Pd e Leu?

La discontinuità richiesta dagli altri – ieri da Calenda e Bonino, poi verrà il turno di Renzi, per non parlare di Forza Italia e Lega – mal si concilia con un ruolo importante per l’ex inquilino di Palazzo Chigi. Anche a Roma, come successo a Washington, gli avvicendamenti apicali non sono più automatismi.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.