La debolezza delle forza politiche
I partiti non sono fragili ma divorati dai tanti piccoli Cesare estemporanei

Certo, seppur per convenzione e giusto per capire di che parliamo, in qualche modo dobbiamo chiamare quelle “entità” su cui si fonda la rappresentanza politica nelle democrazie come la nostra. Così continuiamo a chiamarli partiti. Anche se nulla hanno a che fare con quelle altre “entità” che troviamo sui libri di diritto costituzionale e che quella parte della popolazione che ha più di venticinque/trent’anni, ancora riesce forse a ricordare.
Tanto per un remember: avete presente iscritti, congressi che non si sapeva prima chi avrebbe vinto, leader scelti dal basso, organizzazioni capillari sul territorio, giornali-organi ufficiali, movimenti collaterali ( giovani, sport, cultura, ecc.), scuole di formazione dei dirigenti, ragionevoli possibilità di conservare lo stesso nome-ragione sociale per un tempo che non fosse effimero, visione del mondo -chiamata ideologia- che faceva diversi e distinguibili la destra, la sinistra e il centro? Ecco, quelle cose lì erano i partiti, che non conoscevano la maledizione del Cesare, padrone e signore di tutto l’ambaradam, scagliata da qualche dio minore, e sicuramente malevolo, sulle entità di oggi. Il cesarismo, dunque, il partito personale, che orpella la corsa del leader verso la realizzazione della sua egolatria, resta cifra esclusiva della politica corrente.
Allora un pochino lascia straniato il riferimento ricorrente ai partiti che i grandi editorialisti, alcuni peraltro non digiuni di competenze specifiche sul piano accademico, fanno, meravigliandosi che codeste “entità” non si mostrino all’altezza del nuovo tempo. Ma va? Cadiamo dal pero scoprendo che i partiti sono deboli? Diciamocela tutta, allora: i partiti non sono deboli. Semplicemente non ci sono. Non traggono più il loro etimo dalla parola “pars”, parte, effetto di una divisione, ma si ricongiungono all’origine remota che deriva dal verbo partire. Dunque sono solo un participio passato e non più un accusativo (partem). Quelli evocati dalla Costituzione e dalla storia democratica di questo paese, dunque, erano figli dell’accusativo e funzionavano (anche troppo) animando stagioni in cui la politica la faceva da padrona e l’equilibrio costituzionale restava quello disegnato dai padri della patria.
Infatti, attraverso la rappresentanza parlamentare ( scelta col voto di preferenza dal corpo elettorale e non cooptata attraverso liste chiuse!!), i partiti davano senso al concetto della sovranità popolare, mettendo in condizioni di “concorrere alla determinazione della politica nazionale”. Il Big Bang della Seconda Repubblica, dunque, li ha cancellati, sostituendoli con entità polimorfe come Zelig, morbide come una caramella mou, devitalizzate come un jingle pubblicitario pensato per essere fischiettato catatonicamente. Si può tornare indietro? Nossignore, non si può e neanche avrebbe senso. Per capirci, tanto per cominciare bisognerebbe ripristinare il finanziamento pubblico e imporre per legge la democrazia interna. Ipotesi del tutto campate per aria, primo, perché nessun politico cuor di Leone che calchi la savana della vita pubblica oserebbe sfidare il popolo che batte le mani a ogni trucidazione dei simboli della politica. Secondo perché così si cancellerebbero le epopee dei partiti personali, cosa che non mi pare sia nei desiderata dei conducatores in circolazione. E c’è pure una terza ragione: la liquefazione dei partiti ha portato, nel frattempo, anche alla liquefazione della politica, consegnata mani e piedi alla finanza.
Una volta c’erano i “poteri forti” nazionali, con nomi e cognomi noti, in conflitto/coabitazione con una politica forte. Oggi il potere è transnazionale, è quello stesso che detta legge dappertutto e che si sceglie agevolmente i capi della politica. Un sistema dei partiti che voglia rivendicare la sua parte, oggi, dovrebbe tener conto di tutto questo, con un livello di consapevolezza, di competenza e di duttilità superiore a quello delle generazioni passate. Questo sistema, però, ancora non c’è. Forse qualcosa, però, può cominciare: la formazione. Abbiamo bisogno come il pane di una classe politica competente e di strumenti per la formazione. Una volta lo facevano-egregiamente- i partiti, con le loro scuole. Possiamo ricominciare da lì: prendiamo esempio dalla Germania.
I tedeschi finanziano le fondazioni politiche, una per partito, finalizzando l’intervento statale alla formazione. Potremmo farlo anche noi. Ricominciando, così, una tessitura in grado di mettere in campo nuovi dirigenti politici. Perché ci può essere anche una vocazione sincera, ma senza competenza non si fa bene al Paese. E il bene del paese, alla fine, è quello che dà senso all’azione politica in tutti i mondi, in tutte le culture, in tutte le ideologie. Dunque anche in questo tempo di entropia.
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