Che la cosiddetta Fase 2 non sia un banco di prova e una cartina al tornasole del Paese, di quello che fino a qualche tempo fa abbiamo chiamato il Belpaese, convinti come eravamo della sua bellezza e dello spropositato patrimonio di arte, ambiente, storia e, in generale, cultura che custodisce? Che il Covid non sia l’occasione per un esame di autocoscienza? E poi, magari, l’esame lo faremo pure, ma al solito come un rituale che finisce per essere un alibi che lascia e deve lasciare tutto come stava. Viene da chiederselo a vedere i tanti paradossi che si stanno manifestando dalle Alpi alla Sicilia, in lungo e in largo per la Penisola. L’Alto Adige apre e si trova d’accordo con la Calabria che anch’essa apre, mentre il Governo impugna, il Veneto va dritto per la sua strada e rivendica il suo modello, chi fa i tamponi e chi no e poi i Navigli invasi da una folla che se ne frega della distanza sociale, le mascherine che non ce n’è una uguale all’altra, le banche che non aprono il rubinetto, le ordinanze che si annunciano in una lotta che appare sovrumana fra burocrazia del dettaglio ed efficienza…

Che Paese siamo? Il Covid ha cambiato per un paio di mesi le nostre abitudini ma forse sarà il caso di ricordare che le nostre abitudini non erano altro che il risultato compromissorio di storie e pulsioni sedimentate e non da qualche lustro, ma da secoli. Ora, non è qui il caso di mettersi a srotolare all’indietro il tempo, però lo sappiamo quanto la nostra unità nazionale sia stata fragilmente imposta a regionalismi riottosi e a contesti storico-culturali agli antipodi, quanto a fatica (non) siamo riusciti a distinguere fra lo Stato che tutti dovrebbe rappresentarci e il cui senso dovrebbe essere una bussola per ciascuno nelle relazioni sociali, e la politica di questi o di quelli, e ancora quanto ognuno di noi continui a essere attraversato da una pulsione individualistica che solo in circostanze “eccezionali” si sublima in un senso di appartenenza, che si tratti della Nazionale o dell’ultima catastrofe tellurica, o di affacciarsi nell’emergenza e intonare l’Inno di Mameli.

“Ce la faremo!”, quante volte l’abbiamo letto in queste settimane. Chi dovrebbe farcela? Noi! Finalmente Noi! Ma non continua a essere un ritornello quello che da più parti reclama l’inversione dei pronomi nella vita del Paese e nella condotta di ciascuno? Non sto pensando alle disposizioni del Fascismo che alla leziosità borghese del “lei” anteponeva quella severa del “voi”. Sto semplicemente ricordando come il “noi” sia sentito come un ricovero retorico-consolatorio piuttosto che una vocazione a condividere e a sentire gli altri non come antagonisti ma nello stesso tuo cerchio esistenziale. Il che può essere visto come “l’ama il prossimo tuo come te stesso” del buon cristiano o il kantiano imperativo che impone(va) di agire “in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere come principio di una legislazione universale”. Ma, con una scorciatoia di comodo, potrebbe anche essere ricondotto nell’alveo dell’utilitarismo per cui alla fine, fatti tutti i calcoli possibili e mirando solo alla qualità del risultato, ci converrebbe il “noi” rispetto all’ipertrofia dell’ “io”. Ci sta anche questo nella (psico)analisi di un Paese, un po’ cattolico, un po’ laico, un po’ pagano, un po’ materialista-edonista, un po’…

Non occorre voltarsi troppo all’indietro per rendersi conto di quanto questo individualismo abbia camminato su una modalità non a caso divenuta nel tempo un altro stereotipo stabile associato all’italianità, ovverosia quell’arte di arrangiarsi che fa il paio con “campa cavallo che l’erba cresce” e con l’ “ha da passà a’ nuttata” della Napoli milionaria di Eduardo, in un significativo mix di efficienza furbastra e di fatalismo rassegnato. E un tratto che mi pare altrettanto significativo è che questa “arte” sia inevitabilmente collegata a una chiusura dell’orizzonte, esattamente all’opposto della pulsione leopardiana che ama “l’eremo colle” solo perché consente all’immaginazione di andare oltre, fra “gli interminati spazi e sovrumani silenzi”. Mi rinchiudo nel mio guscio, mi proteggo dalle intemperie ed esorcizzo l’alterità che incombe come il “non-familiare” freudiano.

Dove il guscio è la famiglia, la casa, la patria possibilmente piccola, il cerchio municipale delle mura, spaziali e mentali, che separano e sanciscono un confine, a presidio di cosa se non dell’identità e della tradizione-ripetizione su cui si fonda?! Spesso con ricostruzioni che attengono ai perversi circuiti in cui l’immaginario semplifica la complessità e le contraddizioni della storia.  Siamo o non siamo il Paese delle Cento Città?! Una ricchezza certo, ma quanto orgoglio paradossale si esprime in questo richiamo che unisce solo per ricordarci la varietà delle divisioni che ci contraddistingue.

Alla fine sono gli estremi che ci fregano e anche l’emotività in cui passiamo dall’uno all’altro in un miscuglio inestricabile di paura e di slanci, di particolarismo e di retorica appartenenza non solo ad un Paese, ma addirittura all’umanità tutta. Ah, gli italiani brava gente. O vil razza dannata o così narcisi da rispecchiarsi nei loro virtuosi difetti e da proclamarsi arcitaliani. Siamo, ciascuno e il Paese tutto, una cipolla ambigua e contraddittoria, pronta di volta in volta a esibire lo strato che più conviene. Che il Covid-19 ci aiuti a guardarla per un attimo da fuori e a capirne la dolcezza e le lacrime che ne sono inseparabili.