A Milano, ci racconta Gad Lerner, circola una battuta che è tutto uno stato d’animo: nella città desertificata dal virus e privata del suo potere simbolicamente più forte, quello relazionale, degli incontri, degli aperitivi e dei meeting societari, si dice che “è finita la Belle Époque”. Ed è una frase che in effetti non lascia fuori niente, perché quella evocata fu appunto l’epoca luminosa dei café chantant, dei grandi progetti urbani e delle prime originali forme della cultura di massa. A Napoli, dove scrivo io, la battuta più ricorrente è invece un’altra.

E di sicuro è meno originale, forse anche perché qui, nonostante la movida dell’era De Magistris, la Belle Époque, che pure fu un’esplosione straordinaria di vitalità, di teatri, di riviste, di iniziative industriali e non solo di sciantose e di frivolezze varie, non ha lasciato tracce, se non in qualche bel libro. Nella Napoli del coronavirus, come in quella del colera, del terremoto e dell’emergenza rifiuti, si dice ancora “adda passà ‘a nuttata”.

Ora è difficile – nel vivo della pandemia – valutare se abbiano ragione i milanesi, questa volta negli insoliti panni dei pessimisti rassegnati, o se convenga schierarsi con i napoletani del cliché, come sempre aperti al fatalismo e al sangennarismo. Sta di fatto che al punto in cui siamo, mentre la battuta milanese ha una sua oggettiva fondatezza, perché lo avvertiamo tutti che ci vorrà tempo per recuperare gli standard perduti, quella napoletana non ce l’ha. Noi, insomma, “adda passà ‘a nuttata” neanche possiamo dirlo.

Non, almeno, nel senso in cui lo diceva l’autore di Napoli milionaria. Quella battuta Eduardo la pronunciò in pubblico, per la prima volta, la sera del 25 marzo del ‘45, al teatro San Carlo, e nel manoscritto originale la frase addirittura non c’era, per cui se la scriviamo così, e non alla maniera del Manzoni e del matrimonio che non s’ha da fare, è solo per analogia con quanto stampato in Questi fantasmi, nella pagina del monologo sul balconcino, quando si spiega che il caffè “adda passà” attraverso il filtro della macchinetta.

Ortografia a parte, il punto è che Napoli milionaria viene scritta dopo venti anni di fascismo, dopo una guerra mondiale, dopo cento bombardamenti alleati e dopo giorni e giorni di rastrellamenti nazifascisti. Quando questo finisce, Eduardo non tira un sospiro di sollievo, non scrive inni alla gioia come Dove sta Zazà (“Era la festa di San Gennaro/ Quanta folla per la via… “) ma sorprende tutti alludendo a un futuro oscuro. Lo sbarco alleato gli suggerisce piuttosto l’immagine della notte, non quella dell’alba liberatoria. Ed è per questo che si è parlato di moralismo antiamericano di Eduardo, della sua preoccupazione per l’arrivo delle am-lire, del boogie woogie, del consumismo e del modernismo capitalista.

Se noi non possiamo dire la frase di Eduardo, dunque, è proprio perché nel nostro caso la guerra non è ancora finita. Non siamo al dopo. All’euforia tra le macerie, ai cori partigiani nonostante le stragi subite, alle Tammurriate nere, alle tragedie private vissute come male minore, alle moltitudini “freneticamente passeggianti” di cui parla Fabrizia Ramondino a proposito della Napoli del terremoto o al felice riversarsi nelle piazze pedonalizzate dalla crisi petrolifera. Noi siamo ancora al durante. Siamo chiusi in casa. Iperisolati proprio quando credevamo che il nostro problema fosse la iperconnessione dei nostri figli, frettolosamente definiti “sdraiati” e temporaneamente rivalutati solo al tempo delle Sardine. Noi siamo ancora al durante, dunque.

Non possiamo preoccuparci, come Eduardo, delle conseguenze dell’avvenuta liberazione: degli effetti disastrosi sull’economia europea, dei sovranismi sanitari, del welfare da ricostruire, delle differenze acuite, e – cosa decisamente più importante- della accresciuta potenza seduttiva del modello vincente che per ora è quello cinese, con tutto ciò che questo comporta sul fronte della concorrenza tra democrazie liberali e sistemi autoritari. A pensarci bene, la Cina di XI Jinping potrebbe diventare per noi quella che per Eduardo fu l’America di Truman.

Ma il fatto è che noi siamo ancora al durante. In sostanza, siamo ancora nell’Italia dell’8 settembre, quando gli ordini risultavano vuoti o contraddittori, tutto era incerto, i soldati scappavano dal fronte e il Paese doveva ancora mettersi alle spalle il nazifascismo. Che poi oggi ci si voglia portare avanti con la speranza gridando “andrà tutto bene”, questo è un altro discorso. Così come altra cosa è sentir dire da intellettuali mai convinti della linearità della Storia che proprio questa, la Storia, ci insegna che la salvezza è vicina.

Resta che molti di quelli che oggi si dicono ottimisti, ieri, con la piccola Greta, non lo erano affatto. Molto più credibile allora chi, in questo difficile durante, si limita ad affermare che la scienza può salvare il mondo. Attenzione. Può salvare. Non salverà. Perché molte sono le varianti.