L’anniversario della morte di Francesco Nerli offre lo spunto per una riflessione di carattere più generale riguardo ai rapporti tra magistratura, informazione, potere e processo. Com’è noto, la vicenda di Nerli risale all’ormai lontano 2008, allorquando l’ex presidente dell’autorità portuale venne sottoposto al divieto di dimora con l’accusa di concussione per avere chiesto denaro ad alcuni rappresentanti di società operanti nello scalo marittimo napoletano con l’obiettivo di finanziare la campagna elettorale del Pds in Campania in occasione delle regionali del 2005, delle politiche del 2006 nonché delle amministrative del 2007.

Nonostante le sue rivendicazioni di innocenza, il manager subirà un lungo e tormentato processo e ci vorranno otto lunghi anni prima che il Tribunale di Napoli lo mandi assolto da ogni accusa con la formula «perché il fatto non sussiste». Dicono che l’uomo abbia sofferto molto per quella storia, tanto da ammalarsi e morirne. Chissà se la sua malattia sia stata davvero una conseguenza di quel dolore. Fatto sta che da più parti si invoca la vicenda per tornare a parlare di ragionevole durata del processo e di responsabilità civile dei magistrati. Io credo invece che questa debba piuttosto costituire l’occasione per riflettere sullo stato dei rapporti tra stampa e magistratura nel nostro Paese. Proviamo prima di tutto a chiederci quale sia la lezione che occorre trarre da tutta questa vicenda, che è umana prima ancora che giudiziaria.

Nerli fu vittima di una gogna mediatica che cominciò all’indomani delle perquisizioni eseguite dalla Guardia di finanza, divenendo suo malgrado protagonista di una storia che ebbe larga eco sulla stampa sia locale che nazionale. Fiumi di inchiostro vennero all’epoca versati per raccontare come era nata l’indagine e per spiegarci quanto bravi fossero stati i magistrati inquirenti a scoprire il sistema delle tangenti. Poi cominciò il processo – un processo lungo e complicato durante il quale vennero sentiti i testimoni, e le tesi dell’accusa vennero finalmente messe a confronto con quelle della difesa – ed ecco l’anomalia: il silenzio calò sulla vicenda. Un silenzio interminabile, assordante, ingiusto e inspiegabile. Eppure la magistratura rappresenta un potere dello Stato.

Un potere diffuso, è vero, ma pur sempre un potere. E allora come si spiega – una volta esauriti i fuochi d’artificio delle prime indagini – tutto questo disinteresse, questa mancanza di attenzione da parte dell’informazione (almeno di quella che conta) sui successivi sviluppi di questa come di numerose altre analoghe vicende? E ancora, è mai possibile che a nessuno degli organi a cui spetta di valutare la professionalità dei magistrati e la funzionalità degli uffici giudiziari – e quindi in primo luogo al Csm– interessi o sia venuto in mente di approfondire le ragioni di un simile fallimento (perché l’assoluzione di un imputato innocente dopo otto anni di indagini e di processo rappresenta pur sempre e per definizione un fallimento)?

Ebbene, a me pare che proprio questa assenza di ogni controllo costituisca la vera anomalia italiana. In un Paese liberale l’informazione rappresenta il principale baluardo della democrazia, un fondamentale strumento di controllo contro gli abusi e le inefficienze del potere. Ricordiamo ancora oggi la storica inchiesta del Washington Post che nel 1972 portò alla luce lo scandalo Watergate con la richiesta di impeachment e le conseguenti dimissioni del presidente Richard Nixon. Noi non pretendiamo così tanto, ci mancherebbe. In verità ci basterebbe molto di meno. Ma vorremmo almeno sapere per quale ragione, in questo nostro strano Paese, accada spesso che alcune inchieste, all’inizio così tanto pubblicizzate da certa stampa, si concludano, a distanza di anni, con proscioglimenti e assoluzioni che non interessano ormai più a nessuno.