Ieri una delegazione dell’Intergruppo parlamentare sull’Intelligenza Artificiale ha incontrato il premier Conte, c’ero anche io. La notizia c’è, perché di intelligenza artificiale i politici non amano molto parlare, né tantomeno pensarci su. Tema troppo complesso, tecnico, e globale. Eppure è tema di urgenza assoluta, se è vero che se ne parla come di una minaccia alla libertà individuale e se è vero che le nazioni rischiano di trovarsi definitivamente schiacciate dallo strapotere delle multinazionali che ne hanno di fatto il monopolio. E quindi è bene che il presidente del Consiglio italiano, che evoca spesso un nuovo Umanesimo, se ne faccia carico. Dobbiamo allora ricordarci di come andò quando internet esplose nelle nostre vite provocando la più straordinaria rivoluzione tecnologica della storia dell’uomo e consentendoci libertà che mai avremmo immaginato. Fu una nuova frontiera, ma anche un nuovo far west.

La velocità tecnologica stordì governi e organismi sovranazionali, lenti nel fissare regole e paletti ad un fenomeno epocale. E ancora oggi, venticinque anni dopo, scontiamo gli effetti e le consuetudini prodotti da quel disallineamento fra sviluppo digitale e capacità di regolarlo. Da allora si procede in modo ondivago, con lassismi che sarebbero insensati per qualunque altro ambito e improvvise strette che disorientano il mercato. E di solito, quando il legislatore interviene, i buoi sono scappati. È successo così, per esempio, con le enormi quantità di dati e informazioni su di noi di cui cediamo proprietà e diritti ogni giorno ai vari Google, Facebook e Amazon. Nessuno ce li restituirà mai più, non saranno mai nostri. Possono essere utilizzati con pochissimi limiti a piacimento di chi ne dispone per sempre. In cambio, ci hanno dato un’illusoria libertà di espressione delle nostre opinioni e di informazione, oltre a servizi ormai divenuti essenziali per noi, irrinunciabili. Ora bisogna imparare la lezione ed evitare che la stessa cosa si ripeta con l’intelligenza artificiale, partendo subito dalla tutela dello Stato di diritto.

Se è vero, infatti, che l’intelligenza artificiale rappresenta un’opportunità per le democrazie in termini di maggiore trasparenza e partecipazione, dall’altra comporta rischi importanti in termini di manipolazione e disinformazione. Va normata, non può essere lasciata all’autodeterminazione delle aziende globali che sviluppano gli algoritmi. Se oggi il fondatore di un partito di governo, Beppe Grillo, può dire tranquillamente – non come un cittadino comune, ma come leader democraticamente rappresentativo – che la nostra è una democrazia “zoppicante”, in cui ormai va a votare meno del 50% degli aventi diritto e che bisogna pensare ad un’estrazione a sorte dei rappresentanti, significa che siamo già in allarme rosso. «Andare a votare ogni quattro-cinque anni e mettersi la coscienza in pace è assurdo. Devi dare il voto tutti i giorni», ha detto Grillo. Ecco, la grande rivoluzione digitale, tra i suoi straordinari effetti, ha prodotto anche questo: l’urgenza di sostituire la democrazia rappresentativa con quella cosiddetta “diretta”, sicuramente più efficiente. C’è però un ma.

Premesso che qualcuno che traduca poi la volontà dei cittadini in leggi, e che lo faccia con competenza e capacità esclusivamente umane di mediazione ci vorrà sempre, se prima di pensare alla democrazia diretta non si costruisce una governance globale degli algoritmi, il rischio è che il nostro voto, così come oggi i nostri dati, non sia più una cosa che ci riguarda. L’uso di algoritmi per l’intelligenza artificiale potrà – anzi lo sta già facendo – sostituire perfettamente gli umani e la loro volontà, essendo in grado di preordinarla. Essi infatti imparano da sé stessi, sviluppando, nel processare ed elaborare dati, capacità predittive tali da consentire di pre-formare il comportamento umano, i nostri gusti, le nostre priorità e le nostre scelte. Già oggi guidano le auto al posto nostro prevenendo un nostro possibile errore, prevedono i comportamenti di possibili criminali, prevenendo delitti. E orientano le nostre opinioni, mettendole al servizio del “bene comune” e prevenendo eccessi di autonomia od originalità del pensiero. Inscatolano l’umano, perché loro sono a loro volta inscatolati e solo quella dimensione conoscono. Così come Amazon ci persuade indirettamente ad orientarci verso certi acquisti o Google verso certe aree di interesse, altrettanto può già accadere per le nostre idee politiche e quindi per i nostri voti. E se abbiamo rinunciato alla proprietà dei nostri dati, perché mai dovremmo pretendere di essere proprietari delle nostre opinioni o del nostro libero esercizio democratico?

La democrazia diretta allo stato attuale non è una fonte di libertà, ma di controllo, perché sottosta a regole preordinate non si sa da chi, secondo quali leggi, e per quali scopi. Non è sproporzionato dire che possono già essere oggi gli algoritmi a sostituire gli esseri umani anche nell’esercizio della democrazia e a disegnare assetti sociali dove davvero l’umano non potrà che essere suddito. Siamo sicuri che questa sia la nuova frontiera che vogliamo oltrepassare? Mentre ci decidiamo, sarebbe opportuno e necessario, da parte di legislatori, governi ed enti intergovernativi, stabilire regole d’ingaggio condivise e incontrovertibili sulla proprietà degli algoritmi, sul loro sviluppo, applicazione e commercializzazione e sulla tutela dei diritti dell’uomo, o meglio dell’umano.