Le bordate di Biden contro Putin. La risposta tagliente del leader russo. È l’inizio di una nuova Guerra fredda Usa-Russia? Il Riformista ne discute con uno dei più autorevoli studiosi del “pianeta Usa”: Massimo Teodori, professore di Storia e Istituzioni degli Stati Uniti. Tra i suoi libri sull’America, ricordiamo: Ossessioni americane. Storia del lato oscuro degli Stati Uniti (Marsilio, 2017); Obama il grande (Marsilio, 2016); Storia degli Stati Uniti e il sistema politico americano (Mondadori, 2004) e, dal 20 maggio in libreria, Il genio americano. Sconfiggere Trump e la pandemia globale (Rubettino, 2020).

Professor Teodori, la metto giù un po’ brutalmente: cosa gli è preso a un “moderato”, nei toni se non nei contenuti, come è stato dipinto Joe Biden, per dare dell’ “assassino” al suo omologo russo?
Innanzitutto vorrei precisare che l’aggettivazione di Putin “killer” è contenuta nella domanda dell’intervistatore a cui Biden si limita a dare solo un cenno di risposta positivo. Sia che si sia trattato di una mezza gaffe o di una risposta convinta, a me pare che quell’uscita, apparentemente infelice, contenga invece una linea politica dell’Amministrazione democratica sia per la scena internazionale che per gli equilibri interni.

Perché sostiene questa tesi?
Di fronte all’arroganza della Russia, Biden si propone di affermare alcuni obiettivi: ribadire che non ha nulla a che fare con Putin malgrado gli affari di suo figlio in Ucraina; deplorare gli ambigui rapporti personali di Trump con il Cremlino; e lanciare una deterrenza alla crescita dell’influenza internazionale del nuovo zar.

Tutto ciò però è indipendente dalla intromissione nelle elezioni americane?
È vero, ma le rivelazioni delle interferenze russe nelle presidenziali del 2020 come in quelle del 2016 con l’elezione di Trump, certificate dal National Intelligence Council hanno costituito un’ottima occasione per lanciare un avvertimento a Putin condiviso da buona parte dell’opinione pubblica americana ed anche da alcuni settori Repubblicani.

Quindi lei pensa che l’attacco a Putin serve alla politica interna?
Sì, è così. Nel momento in cui accentua le distanze dal predecessore, il Presidente tende la mano ai Repubblicani in nome di quella unità nazionale più volte invocata attraverso la sottolineatura di una politica estera dura nei confronti di russi e cinesi. L’alternanza del bastone e della carota verso gli storici avversari serve a bilanciare le aperture “ecologiche” sul clima e le risorse energetiche non gradite a molti Repubblicani.

A stretto giro di “posta” mediatica è arrivata la glaciale replica di Putin. A Biden che gli ha dato dell’assassino, il capo del Cremlino ribatte: «Chi lo dice sa di esserlo». Siamo alla diplomazia degli insulti?
Gli insulti sono la facciata che deve servire per la pubblica opinione. Tutti sanno che con la Russia, così come con la Cina, gli Stati Uniti devono trattare su una serie di questioni vitali per gli equilibri internazionali. In particolare, con Putin Biden deve continuare a discutere sul controllo degli armamenti nucleari e sulla gestione della calotta polare nord che può divenire uno dei terreni di scontro tra le grandi potenze sia per il sottosuolo che per le rotte commerciali e militari. L’attacco a Putin significa anche «attenzione a non allargarti troppo perché noi americani non staremo a guardare».

C’è chi sostiene che dietro l’affermazione dell’inquilino della Casa Bianca, vi sia un effetto ritorno della Guerra fredda voluto ed esplicito. È così?
Al di là delle definizioni e di quel che significa “Guerra fredda”, certamente Biden appartiene a quella tradizione Democratica che unisce interventismo internazionale e difesa della democrazia e dei diritti umani. In diversi atti del nuovo Presidente si può osservare tutto ciò, tenendo anche presente che ha un segretario di Stato di prim’ordine come Antony Blinken di cultura europea.

Scrive Anna Zavesofa, che il “pianeta Russia” conosce molto bene: «Dare dell’assassino al presidente di un Paese non è banale, è una dichiarazione di guerra, ma soprattutto verrà vissuta dall’inquilino del Cremlino come un’umiliazione, un’offesa, una mancanza di stima». Professor Teodori, non ritiene che questo atto avventato possa essere stato anche uno degli obiettivi del presidente americano, che già sette anni fa, all’epoca dell’annessione della Crimea il cui anniversario Mosca sta celebrando proprio in questi giorni, era stato il più intransigente dei componenti dell’amministrazione di Barack Obama?
Biden è molto diverso da Obama che credeva che per gli Stati Uniti fosse finita la stagione dell’egemonia internazionale e, quindi, si rendesse necessario ritirare progressivamente i marine da tutti i teatri in cui scoppiavano conflitti, a cominciare dal Medio Oriente. Da allora sullo scacchiere mondiale sono avvenuti una serie di mutamenti che l’America non può ignorare, a meno di rinchiudersi in un isolazionismo nazionalistico come quello che in maniera pasticciata voleva praticare Trump.

Quali sono questi mutamenti così determinanti per gli assetti internazionali che l’America si trova di fronte?
Primo, la Cina che si propone come potenza egemone con una espansione politica, commerciale e militare non solo nel Pacifico ma anche in tutti e cinque i continenti. Secondo, l’allargamento della zona di influenza della Russia a tutto il Medio Oriente e il Mediterraneo, quasi a volere riproporre sotto altre specie la politica dell’Unione sovietica sostenuta esclusivamente dal potere petrolifero. Terzo, il deflagrare su tutto il pianeta di una guerra cibernetica che ha tra gli obiettivi proprio la potenza informatica americana. Biden e i suoi consiglieri sembrano aver preso coscienza di tutto ciò mentre avviano i nuovi programmi della politica dei diritti umani.

Dopo una giornata di gelo con il ritiro dell’ambasciatore russo a Washington Putin si è rivolto a Biden dichiarando “parliamoci direttamente”. Che significato ha questa apertura?
Significa che la mossa politica di Biden ha avuto effetto e che, inevitabilmente i rapporti continueranno, probabilmente da una più energica posizione americana.

Nella dura uscita contro Putin da parte di Biden c’è anche un messaggio all’Europa?
Assolutamente sì. Un messaggio per dire all’Europa di non stringere troppo i rapporti commerciali, soprattutto dal punto di vista dell’oleodotto con la Russia, con la quale tutti i Paesi europei, a cominciare dalla Germania, hanno grandi interessi quanto a scambi commerciali. Proprio in nome della politica atlantica, Biden dice all’Europa: io affronto Putin, però anche voi dovete tenervi a distanza. L’atlantismo non può essere per l’Europa a costo zero o una evocazione retorica senza ricadute concrete e impegnative nella politica estera. In questo senso, il rapporto con la Russia è un impegnativo banco di prova per l’Europa e il suo “atlantismo”.

Per restare al rapporto euroatlantico. Nella polemica politica che ha accompagnato la caduta del governo Conte II è entrato anche un eccesso di “simpatia”, mettiamola così, dell’ex presidente del Consiglio con il precedente inquilino della Casa Bianca, Donald Trump. Ora a Palazzo Chigi c’è Mario Draghi e alla Presidenza americana Joe Biden. Come si potrebbero sviluppare i rapporti bilaterali?
Certamente Draghi è un interlocutore importantissimo per gli Stati Uniti, per la sua visione, per la sua impostazione, per la sua cultura e, soprattutto, perché nel prossimo anno Draghi sarà alla testa dell’Europa e quindi potrà stabilirsi un rapporto privilegiato da una parte e dall’altra tra Usa e Italia.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.