La “battaglia del Quirinale”. Le sue ricadute sul quadro politico. Il futuro del governo e di un sistema dei partiti in crisi. Le priorità di questo fine legislatura. A discuterne con Il Riformista è il professor Sabino Cassese. Il suo percorso accademico è lungo e prestigioso e in alcuni momenti si è incontrato con importanti cariche istituzionali da lui ricoperte: ministro della Funzione Pubblica nel governo guidato da Carlo Azeglio Ciampi, Giudice emerito della Corte Costituzionale e professore emerito della Scuola Normale Superiore di Pisa, nonché professore di “Global governance” al “Master of Public Affairs” dell’”Institut d’Etudes Politiques” di Parigi. Insomma, un’autorità assoluta.

Subito dopo la rielezione di Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica, i leader dei partiti, chi più, chi meno, hanno fatto a gara a intestarsi il merito della rielezione. Fuori dal teatrino della politica, qual è una lettura seria di ciò che è avvenuto?
La frammentazione delle forze politiche è molto alta. Era difficile che esse trovassero un accordo su un esponente derivante dalle forze politiche stesse. Sono andate alla ricerca di personalità esterne, prima più vicine ai partiti, poi più lontane. Di alcune di esse non si conoscevano neppure gli orientamenti politici generali. Questa ricerca è stata nello stesso tempo generosa e poco avveduta. Generosa perché le forze politiche rinunciavano a puntare su propri esponenti. Poco avveduta perché era difficile che il corpo dei grandi elettori accettasse che al vertice dello Stato andasse una personalità esterna, considerato che già a capo del governo vi è una persona esterna al corpo politico. Fallito questo secondo tentativo, non si poteva che ripiegare sul presidente uscente.

Nella prima conferenza stampa dopo l’elezione di Mattarella bis, il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, si è tolto un sassolino, e che sassolino, dalla scarpa: no al rimpasto e no a un suo futuro politico. Il tutto condito da una battuta pungente: “Il lavoro me lo trovo da solo”. Siamo ai titoli di coda?
Do una interpretazione diversa dell’assetto che si è venuto a creare dopo la seconda elezione del presidente Mattarella. Con tale rielezione si è ricostituita l’unità precedente tra l’artefice e l’attore. L’artefice è il presidente della Repubblica che ha individuato la soluzione “di alto profilo non corrispondente ad alcuna formula politica”, come fu presentata la nomina del presidente Draghi. L’attore è proprio quest’ultimo, il quale ha guidato con saggezza il governo per un anno. Tuttavia, dopo le elezioni si sono verificate due conflagrazioni, la prima a destra, la seconda sinistra. Anche se queste si sono innestate sul nervosismo della politica di questi mesi, dipendono da fattori preesistenti. La conflagrazione a destra era in qualche modo implicita nella contraddizione esistente. Fratelli d’Italia e Lega sono parte di un’alleanza politica, ma tuttavia contrapposti perché la prima è all’opposizione, la seconda al governo. La conflagrazione a sinistra era anch’essa implicita nella anomia nel Movimento cinque stelle, che rifiuta il diritto statale dei partiti senza tuttavia neppure rispettare quello proprio o interno.

Manca un anno alla fine della legislatura. Che anno sarà per il governo?
Ritengo che ora, ricostituita l’unità tra artefice e attore, il governo abbia un anno difficile ma importante davanti a sé. Deve, innanzitutto, come tutti i governi, evitare che i problemi urgenti prendano la mano a quelli importanti. In secondo luogo, deve supplire alle carenze programmatiche dei partiti, alle carenze realizzative dell’amministrazione e persino all’ormai chiara carenza degli staff, forniti dai grandi corpi dello Stato, in quali hanno rivelato gravi debolezze, specialmente nella preparazione e nella confezione delle leggi. Tenga presente che la qualità attuale dei rapporti tra Stato e cittadini dipende in larga misura dalla intelligibilità dello Stato e si chieda come sono scritte oggi le leggi, se esse sono comprensibili. Il secondo luogo, tenga presente che i futuri rapporti tra Stato e cittadino dipendono dalla qualità dei “civil servants” e si chieda come sono selezionati oggi gli insegnanti e in generale i dipendenti pubblici. Il governo deve, in terzo luogo, agire sapendo di avere davanti un breve periodo di vita, ma operando come se ne avesse uno lungo: se i governi italiani, sempre pereunti, non facessero questo, non avremmo mai riforme, perché i governi si dedicherebbero soltanto ai problemi che si pongono da sé, come la pandemia o la carenza di risorse finanziarie, e non a quelli che riguardano il futuro. Mi riferisco, in particolare, a problemi annosi, come quello demografico, del declino della popolazione, che va risolto con un rafforzamento del “welfare” diretto alle famiglie. Allo spostamento dell’enfasi dello Stato del benessere dagli anziani ai giovani. Al basso tasso di scolarizzazione della società italiana. Al perenne divario tra Nord e Sud. Alla crisi dell’organizzazione territoriale della sanità, già individuata dai rapporti dell’Ufficio parlamentare di bilancio e della Commissione europea e scoppiata con la pandemia. Al gravissimo problema della gestione di alcune città, come Roma, la capitale d’Italia, dove, nell’ultimo decennio, destra e sinistra hanno fatto l’uno peggio dell’altro e dove l’attuale sindaco ha fatto promesse che non ha mantenuto. E potrei continuare.

Perché inserisce anche il problema di Roma tra i punti della politica governativa?
Perché Roma è la capitale della Repubblica e le sue condizioni influenzano sia lo svolgimento delle funzioni dello Stato, sia le relazioni internazionali. Una razionale distribuzione dei ministeri della città, ad esempio, condiziona il funzionamento complessivo della macchina dello Stato. Questa è fortemente influenzata dal modo in cui è organizzato il trasporto pubblico della città. L’atteggiamento verso lo Stato dei suoi “servitori” è anch’esso condizionato dal modo in cui la città si presenta e viene gestita. Oggi per Roma si può ripetere quello che si diceva nel Settecento: qui comincia l’oriente. Lo stato attuale della città è quello di una conurbazione mediorientale. Basti pensare alla pulizia, all’assenza di ogni controllo, al disinteresse per le diverse funzioni, in particolare quelle affidate alle società partecipate.

In editoriale a commento della rielezione di Mattarella, il direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana, ha usato una affermazione molto forte: le “macerie dei partiti”. Siamo davvero arrivati a questo punto?
Valutazione corretta. La condivido appieno. I partiti, secondo la Costituzione, dovrebbero essere associazioni, mentre oggi sono soltanto piccole aggregazioni di persone intorno ad un leader. Il numero dei loro iscritti è oggi un ottavo di quello del secondo dopoguerra, nonostante che la popolazione italiana sia aumentata di 10 milioni. Hanno deficit programmatici strutturali. Dovrebbero elaborare e presentare una “offerta politica” e quindi attrarre consensi; invece, perdono di elezione in elezione elettorato, tanto che ad alcune elezioni ha partecipato metà degli aventi diritto al voto. Non hanno più organizzazioni periferiche capillari, radicamento sociale, capacità di selezione del personale politico. Fanno sempre più spesso affidamento su persone esterne, della “società civile” per presentare candidati. Quando fanno primarie, le fanno “aperte”, quindi non contano sui loro (pochi) iscritti. Dovrebbero essere lo strumento della democrazia statale, ma non sono democratici al loro interno: basti pensare alla rarefazione dei congressi nazionali dei partiti.

Uno dei temi caldi è la riforma della Giustizia. Il Consiglio dei ministri l’ha varata. Il giudizio di questo giornale è sintetizzabile in un suo titolo di prima pagina: “Riforma Giustizia? Le correnti saranno più forti”. Un’occasione persa?
La ministra Cartabia ha chiaramente identificato i problemi e individuato sia i percorsi per trovare soluzioni, sia le soluzioni a breve scadenza. Ricordo che la giustizia italiana non funziona perché i suoi tempi sono troppo lunghi e vi sono milioni di cause pendenti. Perché troppi magistrati sono fuori del sistema della giustizia, mentre dovrebbero impegnarsi all’interno dell’ordine giudiziario. Perché le procure esondano continuamente e i pubblici ministeri si comportano da giustizieri alla Robin Hood. Perché si è creato ormai un circolo vizioso tra procure, media e una parte dell’opinione pubblica, come dimostrato dal fatto che, una volta introdotte le norme sulla presunzione d’innocenza, le proteste sono venute dai cronisti giudiziari abituati a fare da portavoce alle procure. Richiamo la sua attenzione sulla reazione del presidente dell’Associazione nazionale dei magistrati il quale, in un’intervista al Corriere della Sera di sabato 12 febbraio, ha ingenuamente risposto, alla domanda “cosa vi allarma?” “Quella sorta di pagelle in occasione delle valutazioni periodiche: incentivano l’ansia di carriera dei magistrati”. Ora, tutte le persone che lavorano sono sottoposte a periodiche valutazioni, e lo sono anche gli studenti, che vengono interrogati in classe o devono fare gli esami alla fine dell’anno scolastico. Solo i magistrati, in nome di una indipendenza male intesa, sono sottratti ad ogni regola che riguardi la loro produttività, il loro impegno, la diligenza nello svolgere le funzioni, le capacità organizzative.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.