Il vincitore con "Spatriati"
Intervista al Premio Strega Mario Desiati: “Società patriarcale gabbia anche per i maschi”
In principio fu la foglia. Alles ist Blatt, «tutto è foglia». Il principio goethiano, nutrito dalle suggestioni del suo viaggio in Italia e confluito nel saggio tradotto con il titolo La metamorfosi delle piante, si innesta sulla forma archetipica della foglia intesa come «il vero Proteo della natura che sa celare e manifestare insieme tutte le forme». Al culmine della sua metamorfosi, la foglia produce il calice del fiore, la cui corolla serba, inscindibili, il principio maschile e il principio femminile destinati a combinarsi nel frutto. La teoria di una tale dualità erotica convergente nella perfezione del fiore androgino darà a Goethe la possibilità di realizzare idealmente l’unico essere vivente immune alla Sehnsucht, il desiderio del desiderio, la nostalgia di un infinito irrealizzabile.
Quel fiore androgino Klimt lo trasfigurerà, più che in tutti gli abbracci aurei della sua pittura, in un Girasole dalla fisionomia antropomorfa, che riveste di una lussureggiante trama di foglie, e che Bernardo Bertolucci ha poi ricomposto nel riflesso di uno specchio tripartito, nella celebre scena voyeuristica in cui la macchina da presa spia i tre protagonisti di The dreamers, addormentarsi, strafatti, in una vasca da bagno di schiuma e sangue mestruale. La «scultura di carne e sudore» che Mario Desiati intravede in un’orgia, rinchiusa in una gabbia di un noto locale fetish berlinese, nel romanzo Spatriati (Einaudi), vincitore del Premio Strega 2022, chiude una riuscita sequenza narrativa fatta proprio di rifrazione negli specchi, di armonia cromatica, ermafrodita, in un threesome di lingue e di fard. Francesco e Claudia sono due spatriètə – che in dialetto pugliese, con vocale indistinta e inclusiva, denota gli irregolari, i raminghi, i dispersi – perché rinunciano a conformarsi alla cellula eteronormata, preferendo “mettersi” trasversali rispetto a una tradizione di supremazia provinciale, fatta di autoelogi e di piccoli soprusi.
L’evanescenza di una storia d’amore che si rincorre dalla Puglia a Berlino, tra la chimerica Claudia e Francesco Veleno, maschio beta e “illegittimo” – spregiativo pugliese per omosessuale – li proclama campioni di precarietà emotiva e professionale, prima che questi approdino alla consapevolezza per cui crescere significa essere depositari del fardello dei segreti più scabrosi dei propri genitori. Evocato con il fischio dei venti che scuotono gli ulivi, dal sapore dei germogli di malva e dalle distese di papaveri e grano, il paesaggio bucolico intorno a Martina Franca conserva ancora quel machismo dei riti e delle processioni cristiane, i precetti secondo i quali alle donne spetta sgranare i rosari, agli uomini sudati spostare pesanti statue. Una scena che ricorda quella mirabile processione del Venerdì Santo a Correggio a cui prende parte Leo in Camere separate di Tondelli – citato peraltro nel romanzo di Desiati come «geniale» – nell’immagine cristologica di un uomo che nella sua separatezza è inconsapevolmente uno spatriato.
La serata al Ninfeo di Villa Giulia ha visto l’estetica queer di un Desiati truccato, con ventaglio rosa e collare leather al seguito, entrare nell’albo dei vincitori dello Strega, e con lui, l’omaggio a due conterranei: Mariateresa di Lascia, Premio Strega postumo nel 1995 con Passaggio in ombra, e all’amico Alessandro Leogrande, scrittore lucidissimo in difesa degli ultimi e dei ferocemente sfruttati, scomparso prematuramente nel 2017. Ma il queer è politica, pertanto il ricordo più eversivo nella cornice della cultura istituzionalizzata di un Paese abbandonato alla deriva fascio-meloniana è il pensiero che rivolge a Cloe Bianco, uccisa dall’emarginazione sociale di matrice omotransfobica in un furgone in fiamme, da una collettività in cui per Desiati «la gentilezza è così rara che la scambio sempre per amore».
Spatriati non sono solo Francesco e Claudia, emigrati a Berlino, ma anche gli immigrati albanesi, romeni, somali sbarcati in Puglia e guardati con sospetto xenofobo dai locali. Ha ancora senso interrogarsi in letteratura su un’idea di patria che non sia un’incostante e volatile Heimat?
Ogni tema ha un senso se trattato con un’angolatura originale. Credo alla somma dei punti di vista diversi che danno un totale ancora più diverso. In Spatriati ho cercato di raccontare un’idea più esistenziale e psicologica di quel concetto a cui allude la domanda. A un certo punto il protagonista riconosce la sua appartenenza più che a un luogo a una serie di legami, tanto che Francesco dice che Claudia è la sua patria.
Francesco Veleno è un personaggio profondamente cattolico. La Chiesa riveste per lui il ruolo della scoperta delle sue pulsioni omoerotiche e dove subisce l’umiliazione della libidine dei preti. Come si racconta la spiritualità, il rito cattolico della preghiera in un romanzo liberale?
Claudia e Francesco scoprono l’infinita visione che regala l’arte grazie all’ultima cena di Domenico Carella, un quadro misterioso della Basilica di San Martino a Martina Franca, dove sugli apostoli e il Cristo aleggia un’esplosione di fuoco e luce che sembra essere qualsiasi cosa, da un candelabro a un disco volante. L’arte è un’esperienza che molti italiani hanno fatto per la prima volta in una chiesa, nel corso dei secoli è sempre stato un mezzo formidabile di evangelizzazione. Francesco vede nel rito e nella celebrazione qualcosa che lo avvicina alle esperienze della vita. I riti nascono proprio per preparare le anime ai rovesci, vivere la passione del Vangelo, perché tutti prima o dopo sappiano che ne vivranno in grande o in piccolo una simile.
Credo che per “Spatriati” si possa parlare anche di un altro genere di ritualità, quella del clubbing fetish, leather e del crossdressing. Travestimenti e decorazioni che conservano una sacralità ormai persa dalla chiesa…
Ho studiato anni fa e ancora oggi ci ritorno per ragioni molto personali, il saggio della grande junghiana Marie-Louise von Franz, dove parla dell’Asino d’oro di Apuleio, il più complesso e integro romanzo che arriva dalla letteratura latina. Nel saggio c’è una esegesi di molte delle scene di quel libro. E tra queste, la parte dei riti che è fondamentale nel racconto. I riti servono a far confluire e rendere accettabili alcune pulsioni umane che altrimenti sarebbero non soltanto inopportune, ma anche pericolose. È un discorso che meriterebbe un approfondimento, ma sicuramente tutto quello che avviene in certe feste libere, alcune delle quali ho provato a raccontare in Spatriati, rappresenta più di quel che appare.
A Francesco piace truccarsi, solo così sentiva «un’altra umanità, un altro essere maschio, niente più che essere persona. Piena, realizzata, vera». A Claudia diverte truccare i suoi uomini, alcuni accondiscendenti, alcuni riluttanti. Crede che sia il momento editoriale giusto per interrogarsi sulla rappresentazione estetica di una mascolinità altra?
Sinceramente non credo esista un momento editoriale giusto. Non credo negli algoritmi. Un grande editore e scrittore come Antonio Franchini dice sempre, che se si sapesse cosa va in quel momento tutti gli editori lo farebbero. E invece la scrittura di un libro è come una camminata nel deserto dove le oasi sono rare. (Leggere, Possedere, Vendere, Bruciare, Marsilio). Forse oggi c’è una maggiore sensibilità sui temi che vedono in discussione quel sistema di potere che identifichiamo come Patriarcato. Francesco Veleno in Spatriati scopre che adeguarsi a dei modelli di potere decisi dagli altri rende una vita più semplice, ma meno libera. Ecco io credo molto all’idea che una società patriarcale, con quei codici di potere prestabiliti, sia una gabbia anche per i maschi.
Cosa risponde a coloro che – a torto – hanno avvicinato “Spatriati” a “Parlarne tra amici” e in generale a tutta la produzione letteraria di Sally Rooney?
Non discuto mai i punti di vista dei lettori, ascolto e leggo, quel che dicono o scrivono riferimenti mi intrigano perché a volte scopro libri che non conosco. Non è il caso di Rooney che ho letto in questi anni con ammirazione. La speranza è di scrivere un libro dove il lettore non si senta rappresentato dai protagonisti, abbia dei dubbi, rimanga inquietato o turbato. I romanzi di Rooney segnano bene il nostro tempo, anche se da narratore pugliese mi sento più vicino alla nuova leva degli scrittori mitteleuropei.
“Spatriati” è un romanzo con una discreta rete intertestuale, intessuta di citazioni e allusioni musicali, poetiche, televisive, sciolta nell’epilogo “Note dallo scrittorio o stanza degli spiriti”. Come ha pensato a questo scioglimento scongiurando l’idea di cadere nel didascalico?
Ho sempre sognato di dare corpo a una stanza degli spiriti, così come la definì Robert Walser in un racconto clamoroso come La passeggiata. Gli spiriti sono quella brezza delle esperienze che abbiamo fatto, letto, visto, che resta dentro di noi per sempre, a volte senza nomi. Spatriati mi è sembrato il libro giusto dove provare a dare un nome a questi spiriti.
Quanto Bertolucci c’è in “Spatriati”?
Bertolucci è una delle figure più importanti della mia formazione intellettuale. Uscii dalla visione di The dreamers con un animo inquieto. Il finale politico di quel film deviò la discussione con i miei compagni, ma io amai molto il modo lieve, poetico, sensuale con cui era stato raccontato quel triangolo. Chissà forse quell’immagine mi è rimasta dentro, ed è uno degli spiriti a cui non sono ancora riuscito a dare nome.
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