I commenti che in Italia hanno fatto seguito all’esito delle elezioni americane hanno visto, soprattutto sui social, dove il pensiero si muove con la stessa immediatezza di emozioni, discordanze, contrapposizioni accese, e solo raramente con la forza di affrontare i problemi nei loro risvolti complessi, nella loro ambiguità. Per chi si aspettava cambiamenti più radicali a favore dell’ala progressista del Partito Democratico è parso “eccessivo” persino l’entusiasmo di Angela Davis«I am excited» – e discutibile anche l’affermazione di Bernie Sanders sulla sua pagina fb: «Abbiamo bisogno di creare insieme un’agenda popolare per le famiglie dei lavoratori e un movimento potente che esiga che quell’agenda venga attuata. Ma oggi è un giorno di festa».

E festa è stata anche per me, prima di tutto perché ritengo che la sconfitta di Trump sia di per sé un risultato indispensabile per salvare quel fondamento minimo di democrazia che permette di confrontare idee e agire conflitti. Inoltre, anche se resto dell’idea che la “parità” non è la fine del patriarcato – l’autonomia dalla rappresentazione maschile del mondo, la liberazione da modelli forzatamente interiorizzati, cioè quella che è stata la “sfida estrema” del femminismo all’idea stessa di “rivoluzione” – penso che sia un cambiamento, fosse anche solo simbolico, vedere la foto di Kamala Harris, prima donna e per di più di origini indiane, a ricoprire il ruolo di vicepresidente nel Paese più potente del mondo, accanto ai volti dell’unico sesso che l’ha occupato finora.

Se il suo abito bianco, il colore delle suffragiste, e il suo discorso di insediamento rivolto per un verso alle donne «nere, asiatiche, bianche, ispaniche, native americane» che con le loro lotte le hanno aperto la strada, per l’altro a quelle, oggi bambine o ragazze, che vedranno in lei una possibilità inaspettata, dovesse essere solo una “pennellatura di rosa” – come hanno commentato alcune voci del femminismo – motivarla con le scelte discutibili delle sue politiche precedenti vuol dire sottovalutare il fatto che dovrà incontrarsi e scontrarsi con elette al congresso che sappiamo avere posizioni diverse dalle sue, come Alexandria Ocasio-Cortez, Ilhan Omar, Ayanna Pressley, Rashida Tlaib.

Il rapporto tra movimento e istituzioni attraversa da sempre il femminismo, provoca ogni volta scontri frontali e divisioni. Ma una volta detto che non può esserci rappresentanza, né per le donne considerate come un tutto omogeneo, né per la cultura e le pratiche politiche che sono venute creando, dare il proprio sostegno a singole donne, consapevoli della storia millenaria che ha deciso delle loro vite e perciò in relazione, sia pure conflittuale, le une con le altre, significa aprirsi a prospettive impreviste di cambiamento. Ed è quello che oggi lasciano intravedere le elezioni americane, le figure femminili che hanno potuto contare sul voto delle loro simili e sulle grandi manifestazioni contro il sessismo e tutte le forme di dominio che vi sono connesse: razzismo, classismo, devastazione ambientale, omolesbotransfobia. Non è un caso che siano le voci che vengono da oltreoceano a esprimere senza imbarazzo la felicità di chi ha visto eclissarsi l’ombra di un degrado senza ritorno.

Un’amica che non ama comparire su fb, ma che ha seguito le discussioni contrastanti su Kamala Harris, mi ha scritto: «Per chi non vive negli Usa, è difficile capire il clima di degrado sociale, interpersonale, intellettuale, umano a cui Trump ha costretto molti in questi quattro anni. Harris-Biden non sono forse la vittoria del mio programma politico, ma sono un incredibile passo in avanti, un sospiro di sollievo, una speranza non mai riposta che sia possibile avere decenza, dignità, possibilità di dissentire e non venire bullizzati. E per chi è un immigrato (come in fondo anch’io sono, dato che non ho la cittadinanza Usa) è anche la minima ma vitale sicurezza di non essere ogni giorno in pericolo di venire espulsi perché il presidente si è svegliato di malumore… E la gioia di vedere una donna, nera, indiana, figlia di immigrati, dal punto di vista simbolico è importantissimo – i cambiamenti culturali richiedono tanto la dimensione simbolica quanto quella strutturale.

Francamente, mi danno noia tutte queste posizioni che sono critiche delle donne prima ancora che venga data loro la possibilità di manifestare chi sono. Non è che la misoginia è parte, ahimé, della storia culturale delle donne, ed è ora che ce ne liberiamo?». Divise da sempre dallo sguardo maschile, nel privato come nel pubblico, ogni tentativo di sfuggire a un ruolo di sottomissione è guardato con diffidenza, ogni accesso al potere finora riservato all’uomo un segno di complicità.

La preoccupazione di salvaguardare l’autonomia del femminismo, le sue pratiche anomale di liberazione da un dominio patriarcale che ha dato forma ai saperi e ai poteri delle istituzioni pubbliche, tenerle al riparo da una cultura che ha pervaso le loro menti e i loro corpi, è giustificata anche dalle difficoltà incontrate ogni volta che si è tentato di far approvare leggi contro la violenza e le discriminazioni di stampo sessista, ma non dovrebbe temere le brecce, che si aprono in quello che è parso finora un muro di ostilità, quando hanno il volto di donne portatrici di consapevolezze nuove e di una forza collettiva cresciuta negli anni in tutte le parti del mondo.