La decisione del papa di pronunciarsi in modo aperto a favore delle unioni civili cambia molte cose nel dibattito pubblico e nello scontro delle idee. Perché? Per una ragione semplice: finora la Chiesa aveva assunto posizioni molto avanzate, spesso più avanzate di quelle della sinistra tradizionale, sul piano sociale, dell’economia, e anche dei diritti umani. Però aveva sempre tenuto salda la sua posizione arroccata sui temi legati ai diritti civili, alla laicità, ai costumi, diciamo a tutte le grandi questioni che in qualche modo interferiscono, o addirittura confliggono, con la dottrina. Dico con la dottrina, non coi principi.

Paolo VI (Montini) fu un papa straordinario, forse più ancora di Giovanni XXIII, intuì e accompagnò le lotte di liberazione dei popoli, scrisse la più importante enciclica politica del Novecento, la Populorum progressio. Però mise il freno al dissenso. Punì don Mazzi, il prete dell’isolotto di Firenze, Balducci, anche lui prete e gigantesco intellettuale pacifista, non difese don Milani, preso di mira dalla stampa e dall’establishment della politica reazionaria. E fu assolutamente intransigente sui diritti civili. Pensate che Paolo VI è il papa che andò all’Onu a maledire gli eccessi di ricchezza e a pronunciare il più terzomondista tra tutti i discorsi mai pronunciati da un esponente alto della gerarchia cattolica, e qualche mese dopo chiese che fossero proibiti gli anticoncezionali, e poi appoggiò la battaglia di Gabrio Lombardi, e successivamente di Fanfani, per cancellare il divorzio attraverso un referendum. Paolo VI è un papa fantastico, ma proprio nella sua persona si incarna questo conflitto mai risolto nella Chiesa tra apertura sui temi sociali e scelta reazionaria sui costumi.

Del resto Wojtyla, che sul piano culturale, a mio giudizio modestissimo, non può essere avvicinato a Paolo VI e alle sue modernità, con molta più prudenza ripercorse la stessa strada. Con sfumature diverse. La spinta anticapitalista di Paolo VI era una spinta legata alla cultura di sinistra, a don Dossetti, a Moro, ma anche a intellettuali un po’ sovversivi come Pietro Scoppola e Achille Ardigò. Montini rovesciò lo schema anticomunista e antisocialista di papa Pacelli (morto nel ‘58) mantenendo però la scelta conservatrice sulla dottrina, sebbene sia stato l’artefice di un evento teologico e culturale gigantesco, e anche rivoluzionario, come fu il Concilio Vaticano II. La Chiesa che esce dal Vaticano I, nel 1965, è lontana anni luce dalla Chiesa di Pacelli, e trova un posto rilevante e avanzatissimo nella società. Se non si capisce il Concilio, sul piano politico ma anche su quello religioso, forse non si può capire neanche il ‘68 italiano, che fu molto diverso da quello francese, da quello tedesco e da quello americano.

La spinta anticapitalista di Wojtyla invece era una spinta conservatrice. Lui vedeva il capitalismo un po’ come il regno delle sregolatezze, del peccato, del godimento. Non era colpito tanto dai fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma dell’immoralità del capitalismo. Sicuramente Giovanni Paolo II fu un religioso liberale, in quanto il suo liberalismo era inevitabile e cementato dell’anticomunismo. Non dell’anticomunismo ideologico di Pacelli ma dell’anticomunismo vissuto, di una persona che aveva operato oltrecortina, nell’impero dei sovietici, nella Polonia di Gomulka. Però il suo anelito di libertà era legato soprattutto alla necessità di libertà religiosa. Non di libertà civile, o politica. Non fu esemplare ad esempio – qui c’era una grande differenza con Paolo VI – il suo atteggiamento verso le dittature in America latina. Fu troppo gentile con Videla e Pinochet. Lasciò al suo destino – che poi fu la morte – il vescovo del Salvador Oscar Romero.
Montini e Wojtyla però si assomigliano nella loro chiusura sui temi dei diritti civili: divorzio, aborto, libertà sessuale, omosessualità, eutanasia.

Per questo la svolta di Bergoglio, che arriva pochissimi giorni dopo la sua epocale enciclica sulla Fratellanza, è una svolta di grande spessore. Una rottura che forse nessuno si aspettava. Certo, la strada della modernizzazione della Chiesa, e della stessa religione, è ancora lunga. Penso a temi molto delicati come l’eutanasia (non penso all’aborto, argomento sul quale è veramente improbabile un ripensamento dei cattolici), o come il sacerdozio femminile. Però la svolta c’è stata e cambia le cose in politica. Perché? Provo a esprimere il mio pensiero nel modo più schematico possibile. Da almeno dieci anni la sinistra, in Europa, è in rotta. Non ha più leader, non ha programmi, ha perso i suoi partiti.

Resta la Spd dei tedeschi e il partito laburista degli inglesi, ma contano meno della metà di quello che contavano 20 anni fa. Dei colossi veri e propri della sinistra europea, come il partito socialista francese, quello italiano, e il vecchio Pci sono sepolti. E hanno portato nella tomba tutti i propri difetti ma anche la capacità di inventare, costruire programmi e idee, ricucire culture, aggregare grandi masse. E anche governare. I partiti popolari, che furono la fortuna della sinistra del dopoguerra – perché misero insieme forze politiche e capacità di acculturamento del popolo, e furono, appunto, il contrario esatto del populismo, persino nei momenti più rozzi e demagogici della loro esistenza – i partiti popolari, dicevo, non esistono più. L’unica forza politica e ideologica che si vede sul campo è il populismo. Frantumato, diviso, talvolta rissoso, ma unito da un nucleo di idee comuni. La chiusura patriottica, la lotta allo straniero, il rifiuto dell’eccesso di libertà, la voglia di punizione dei nemici, l’odio per la modernità e la globalizzazione. È una forza grandiosa. Manca di leader, ancora, anche perché non possiede una base culturale. Le vecchie ideologie erano sostenute da grattacieli culturali, soprattutto quelle di sinistra, ma non solo loro. La nuova ideologia populista non va oltre Casaleggio e Steve Bannon. Però il populismo è un colosso, e straripa nell’opinione pubblica, ed è maggioranza.

Ecco, la novità sta qui. Rompendo il muro della rigidità dottrinale, la Chiesa di Bergoglio si pone come unica alternativa possibile al populismo. Oggi in campo non c’è nient’altro: Bergoglio su un lato e sull’altro l’armata giustizialista.  Non so dire come sia successo. Però è successo. E i partiti, e gli intellettuali, e gli individui che oggi vogliono fare politica, non possono fingere di non vedere questa situazione e questa contrapposizione. Io non so come e quando potrà rinascere una sinistra in Europa. Penso che rinascerà. Non è possibile il contrario. Che troverà il modo di aggregarsi, recuperando il valore dell’uguaglianza e accettando finalmente, senza remore – come ha sempre fatto finora – il valore della libertà e del diritto. Dico solo che non potrà rinascere, né trovare lo spazio vitale, se non terrà conto di Bergoglio. E dovrà pagare pegno ai fatti e alla storia.

I fatti e la storia dicono che oggi, se non assistiamo ancora al pensiero unico e alla politica unica del populismo è solo perché al populismo si oppone la parte della Chiesa cattolica che si raccoglie attorno al pontefice. Voi capite che per un povero settantenne, che si è staccato dal cattolicesimo più di mezzo secolo fa, e che ha passato la vita credendo che il valore della laicità fosse uno dei valori essenziali, questo è un bel problema. Sto parlando di me se stesso, anche se non si dovrebbe. Non credo più al valore della laicità? No, non ci credo più.

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Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.