Sei Punte
Il terrorismo che la comunità internazionale non riesce a ripudiare
La pausa bellica non può che essere incerta se la bussola di Hamas è sempre il 7 ottobre

Non occorreva essere incrollabilmente pessimisti per prevedere che l’accordo dato per certo e definito quarantotto ore fa avrebbe presentato, pur se fosse stato raggiunto, margini di incertezza magari non capaci di pregiudicarne ogni effettività, ma certamente tali da renderne precarie le ambizioni. Basti questo, a riprova esemplare: mentre il segretario generale dell’Onu, António Guterres, salutava la notizia dell’accordo per il cessate il fuoco a Gaza e per la liberazione degli ostaggi dichiarando che le prospettive di pace dipendono “dalla fine dell’occupazione” israeliana e dal raggiungimento della soluzione “due Stati” (neppure il più vago riferimento all’esigenza che le dirigenze terroristiche palestinesi siano esautorate, dunque), Hamas non solo dichiarava che “il 7 ottobre in termini di risultati militari e di sicurezza rimarrà una fonte di orgoglio per il nostro popolo”, ma aggiungeva che quell’azione genocidiaria rimarrà “la nostra bussola e il titolo della nostra resistenza fino alla liberazione”.
Si potrebbe replicare che i proclami dell’organizzazione terroristica sono tanto scontati quanto, per sé stessi, innocui. Ed è vero. Ma un conto è se vengono da una realtà ripudiata dalla comunità internazionale, unanime nel ritenere (e pretendere) che non ci sia nessun futuro per quei macellai, quanto meno nel quadro della ricostruzione e gestione di Gaza; un altro conto (tutt’altro conto) è se, al contrario, non solo gli accordi di cui si reclama la formalizzazione ma anche il generale atteggiamento degli spettatori lasciano intendere che soprassedere a quell’esigenza – cioè che Hamas sia fatta fuori – è dopotutto un prezzo ammissibile, o che comunque occorre pagare.
Il punto di vista israeliano è il meno importante, in questo quadro. Nel senso che, per Israele, l’eradicazione di Hamas non è in discussione: lo Stato Ebraico continuerà a contrastare con la forza necessaria gli autori e i mandanti degli eccidi del Sabato Nero. E non per forsennatezza guerrafondaia, ma perché non serve nessun’altra prova per sapere che essi, se potranno – come peraltro apertamente dichiarano – persevereranno nell’attuazione del loro programma, che molto semplicemente è distruggere Israele e uccidere gli ebrei.
Ciò che conta è ciò che manca, e cioè la consapevolezza altrui – vale a dire degli attori più prossimi in campo e della cosiddetta comunità internazionale – che il conflitto, ora in vista di una possibile pausa, è già in vista di una sicura ripresa se non saranno eliminate le cause che ne hanno determinato l’inizio e il corso. L’inizio: cioè l’aggressione selvaggia di cui si sono resi responsabili le migliaia di miliziani e civili palestinesi che hanno sventrato Israele il 7 ottobre del 2023. E il corso: cioè un complesso e sanguinoso intervento militare, condotto tra la popolazione e gli edifici civili prescelti da Hamas come campo di battaglia senza che mai, ma proprio mai – come tardivamente ha dichiarato l’uscente segretario di Stato americano – qualcuno abbia preteso che i guerriglieri palestinesi deponessero le armi e si arrendessero.
Il fatto che lo Stato Ebraico sia stato lasciato solo per 14 mesi, obbligato a rinchiudersi in un’apparente intransigenza bellicista troppo facilmente condannata, ha contribuito a perpetuare l’ambiguità di cui oggi fanno le spese tutti, a cominciare dai palestinesi colpevolmente affidati alla curatela sacrificale e sanguinaria di Hamas. Una realtà mortifera che, per trovare legittimazione, non abbisognava neppure di aperte linee di credito: era sufficiente, appunto, che da New York a Parigi, da Londra a Bruxelles, da Madrid a Roma non se ne pretendesse la resa e la destituzione. Ed è quel che è successo; è quel che è stato lungo 14 mesi di conflitto punteggiati da tutto – risoluzioni dell’Onu, processi per genocidio, ordini di arresto – ma non dall’insorgere di una voce comune capace di rendere chiaro a Hamas di non poter ambire a nulla, se non alla resa o alla distruzione.
Se quella voce comune si fosse levata, l’altro giorno non avremmo visto in festa (e in armi) le comunità palestinesi, inneggianti alla “vittoria” per l’accordo che effettivamente prometteva loro il ricongiungimento con migliaia di “combattenti” in via di liberazione e, soprattutto, faceva loro intravedere che il potere su Gaza delle dirigenze terroristiche non rappresenta un capitolo chiuso.
Se i tanti che hanno fatto mostra di deplorarne l’atrocità avessero osservato il conflitto in altro modo, e in altro modo avessero giudicato le responsabilità delle parti coinvolte, forse avremmo assistito a scene diverse. Se il resto del mondo, anziché abbandonarla al sequestro e all’uso che ne ha fatto Hamas, avesse aiutato la popolazione palestinese a liberarsene, forse avremmo assistito a un’esultanza diversa. Rivolta a un possibile futuro di libertà e benessere, invece che di miseria e brama di martirio.
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