Piano piano, e con molta fatica, qualcosa comincia a delinearsi nella campagna elettorale. Sullo sfondo rimane il paradosso principale. Un centro-sinistra che ha il problema di costruire il profilo della propria alleanza ed è tentato da una prospettiva che ricorda la gioiosa macchina da guerra di occhettiana memoria e, al contrario, un centro-destra che l’alleanza ce l’ha, ma non è del tutto certo della sua tenuta. Il vertice di avant’ieri, però, su quest’ultimo versante ha fatto segnare un progresso. A quanto raccontano le cronache, l’incontro tra Meloni, Salvini, Berlusconi e gli altri non è stato del tutto tranquillo, ma ha partorito un accordo che verosimilmente reggerà fino alle elezioni. Con l’effetto di diffondere una certa rassegnazione nell’altro campo.

Tanto che su molti giornali la domanda ricorrente è diventata “quale sarà la politica del centro-destra”, come se l’esito fosse, in qualche misura scontato. Sappiamo bene che in politica nulla è certo, ma la scommessa che qualcosa potesse cambiare per un harakiri degli interessati al momento non sembra aver avuto successo. Questo passaggio rende ancora più cruciale che dall’altra parte si arrivi presto a definire una strategia elettorale chiara e si sciolgano i nodi legati a una coperta comunque stretta tra “agenda draghi” e rassemblement il cui baricentro sia più legato alla piattaforma tradizionale del centro-sinistra secondo la classica logica bipolare. Staremo a vedere.

Quel che è certo è che le elezioni saranno una cosa e il governo un’altra. La miopia tipica degli scontri in vista del voto, inchiodati alla sola congiuntura politica, rischiano di far dimenticare la storia, anche recente. Quella per la quale, sino ad oggi, non solo gli esiti elettorali incerti, ma anche quelli in cui una chiara maggioranza si è affermata, hanno sempre prodotto lo stesso risultato: governi di breve durata, dilaniati dalle conflittualità interne. Basti guardare la serie delle legislature dal 1994 a oggi per riscontrare questa costante. Il fantasma dell’ingovernabilità non può essere scongiurato dal mero esito delle elezioni. Tanto che, anche quando l’esito sembra appunto segnato, la competizione non è più solo per vincere, ma anche per accreditarsi, seppur perdenti, per uno o più dei governi che nasceranno in corso di legislatura.

Probabilmente nei ragionamenti che avvengono nel centro-sinistra in queste ore anche questo aspetto ha un notevole peso. Quale combinazione elettorale può essere più funzionale a giocare l’ipotetica partita nello scenario dell’ingovernabilità? In un bell’articolo su la Repubblica di ieri, Stefano Folli, reintroduce, in modo elegantemente indiretto, il convitato di pietra della nostra politica sgangherata: le riforme istituzionali e in particolare la riforma presidenziale. Con un cauto, ed essenzialmente allusivo, parallelismo tra Draghi e De Gaulle, l’editorialista ricorda di come lo statista francese si fosse allontanato nel 1946 dalla politica proprio per l’impraticabilità dovuta all’ingovernabilità e alla rissosità insanabile delle forze politiche, inarginabile a causa dei limiti delle istituzioni. Ci vollero dodici anni prima che De Gaulle potesse realizzare il proprio disegno di radicale riforma costituzionale. Ma fino a quel momento la politica francese continuò ad essere ostaggio dell’ingovernabile regime dei partiti.

Purtroppo l’Italia non solo soffre della stessa malattia, ma l’ipotesi delle riforme continua ormai ad essere un tabù. E difficilmente farà ingresso in una campagna elettorale schiacciata sulla congiuntura e terribilmente tentata dalla propaganda al vetriolo. La sfida di tenere insieme il governo dopo aver vinto le elezioni si gioca dunque ancora tutta sul piano politico e sulle convenienze di chi vincerà a restare insieme, piuttosto che a seguire i riflessi condizionati della lunga serie storica di disgregazioni annunciate e praticate. Certamente la cosa non sfugge a chi si candida a vincerle le elezioni. Ed è lì che si giocherà il vero talento politico. Rendere i costi della rottura delle coalizioni più alti dei vantaggi. Finora non c’è riuscito nessuno.

Considerando il centro-destra, perché appunto, allo stato, sul centro-sinistra nulla si può dire, si può segnalare un dato che, in pochissimi, hanno notato. Il dato è che nell’accordo sulla premiership siglato tra i partiti di quella coalizione non si dice che il leader (o la leader) del primo partito otterrà la Presidenza del Consiglio, ma che avrà il diritto di designare il Premier. Questo lascia a quel leader (o a quella leader) un grande spazio per misurare il proprio talento politico-strategico. Anche perché dal profilo del Premier discende a cascata il profilo dell’intero governo. Non solo verso l’esterno, ma anche verso la maggioranza. Chissà che questa, insieme, ad altri, non possa essere una leva per rendere, tra gli alleati, l’uso del potere della crisi meno conveniente di quanto sino a oggi non sia stato. Chiunque ci riuscisse, rompendo la serie, drammaticamente inesorabile, del nostro calvario di ingovernabilità, segnerebbe sicuramente una discontinuità di grande significato.