Esattamente sei anni fa, in un’aula della facoltà di giurisprudenza dell’Università di Milano gremita all’inverosimile, L’Unione delle Camere Penali Italiane presentava, insieme agli autorevoli giuristi che avevano contribuito a concepirlo e redigerlo, il Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo. Erano gli anni del governo c.d. “Conte uno”, o gialloverde: grillini e leghisti al massimo del loro fulgore, al governo del Paese. Dunque, il populismo rivendicato come cultura di governo, da declinare in ogni sua forma. Il decreto c.d. “spazza-corrotti” e la sciagurata riforma della prescrizione, che introduceva la figura dell’imputato “a vita”, prigioniero senza scampo e senza limiti temporali del suo processo, furono alcune delle riforme simbolo di quei mesi.

Valori fondativi del patto costituzionale e della tradizione liberale del pensiero giuridico, quali la presunzione di non colpevolezza, la eccezionalità della sanzione penale, della privazione cautelare della libertà personale e della riservatezza della vita privata, il principio della finalità rieducativa della pena, insomma la prevalenza dei diritti della persona rispetto alla potestà inquirente e punitiva dello Stato, venivano esplicitamente aggrediti e messi in discussione.

L’idea del Manifesto nacque esattamente in contrapposizione a quel clima politico, alla rivendicazione di quelle priorità valoriali che il populismo al governo rivendicava con forza, oltre che con sconcertante rozzezza ed approssimazione tecnico-giuridica. L’appello alla mobilitazione in difesa di quei valori costituzionali, che i penalisti italiani rivolsero all’intera Accademia, ebbe un clamoroso riscontro, prima in una ormai storica manifestazione al Teatro Manzoni in Roma, e poi nell’entusiasmo partecipativo intorno al concepimento del Manifesto, che coinvolse trasversalmente scuole di pensiero e tradizioni accademiche non di rado anche storicamente distanti tra di loro.

Nella storia, i Manifesti nascono sempre quando si reputa necessario fissare il profilo ed i contenuti di princìpi e regole che si avverte essere messi in pericolo, o che si reputa comunque necessario affermare, rivendicare e divulgare. I canoni distillati in mesi di studio, discussione e confronto al massimo della autorevolezza scientifica, sono raccolti in quel Manifesto, poi tradotto in tre lingue e discusso ed apprezzato anche in importanti università europee. Purtroppo, le ragioni e le condizioni politiche che allora lo ispirarono, appaiono ancora oggi più che mai attuali. Le intenzioni riformatrici del processo penale che avevano dichiaratamente ispirato la Ministra Cartabia hanno dovuto fare i conti con l’impronta e la eredità del DDL Bonafede, essendo comunque il M5S l’azionista di maggioranza anche del Governo Draghi, con il risultato di aver prodotto un modello processuale che si è semmai ulteriormente allontanato dallo schema costituzionale del giusto processo come definito nell’art. 111 della Costituzione. L’attuale governo, dal canto suo, ha riaffermato con forza l’idea del diritto penale come strumento di veicolazione di messaggi simbolici e di costruzione del consenso, mediante una superproduzione di nuove figure di reato, di nuove aggravanti cervellotiche, di incremento delle pene e delle ostatività, di idolatria della esecuzione carceraria della pena, di stampo ancora una volta schiettamente populista.

In quel Manifesto, per chi voglia e sappia leggerlo, ci sono le risposte forti al populismo penale, al giustizialismo becero, alla concezione del diritto penale come clava da brandire per placare il senso di insicurezza e le paure della pubblica opinione. Sono idee e princìpi riaffermati per tenere viva la speranza che sia ancora possibile stringersi intorno ai valori del patto sociale stipulato dai nostri padri costituenti. Una speranza che ancora ci anima, nell’auspicio che non sia invece null’altro che una illusione. Buona lettura!

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