L’ergastolo ostativo è incostituzionale, ma nessuno ha il coraggio di abrogare la norma voluta trent’anni fa da un governo e un Parlamento sconvolti per le stragi di mafia e incapaci di combatterla senza distruggere lo Stato di diritto. E ancora oggi la Corte Costituzionale che, investita dalla prima sezione della cassazione, ne aveva stabilito con ordinanza l’illegittimità, rimbalzando poi però per due volte la palla al Parlamento, non ha il coraggio di mettere i puntini sulle i e chiudere l’argomento. E anche le ostatività.

L’avevamo detto e scritto fin da allora, oltre un anno fa, che ci sarebbe voluto un po’ di sangue nelle vene e di spina dorsale diritta per dare una svolta alla storia e imporre l’applicazione dei principi costituzionali. Quel coraggio è mancato alla Consulta di allora, quella presieduta da Giuliano Amato, il quale da fine politico che è sempre stato (è lui il vero e unico “dottor sottile”) avrebbe dovuto sapere che quel Parlamento, quello a maggioranza grillina, non avrebbe prodotto niente di buono. Non poteva prevedere che, con la caduta del governo Draghi, il nuovo Parlamento e la nuova maggioranza di centrodestra avrebbero fatto di peggio. Un decreto legge che equivale a campane suonate a morto per duemila detenuti che un anno fa avevano osato sperare che in Italia non ci fosse più la pena di morte. Ieri ha Corte ha riconsegnato le carte a quella sezione della cassazione da cui tutto era partito. E ora si ricomincia da capo, nell’attesa che il Parlamento converta il decreto in legge dello Stato e poi qualcuno riproponga la questione di legittimità costituzionale.

E intanto? Intanto vige la pena di morte sociale, peggio di prima. Perché d’ora in avanti la logica sarà che tu ergastolano mi dai la mano e io ti chiedo il braccio, poi il corpo intero, e infine voglio la tua anima. Perché tu sei mio e non ti lascio andare. E’ questo lo spirito della finta riforma dell’ergastolo ostativo. Rispetto alla quale era più pulita, più onesta, la formulazione incostituzionale. Quella che divideva gli ergastolani tra buoni e cattivi in modo automatico: di qua i “pentiti”, coloro che vendevano amici a parenti in cambio di privilegi per sé, di là gli altri. Tutti coloro che non volevano o non potevano collaborare e trasformarsi in “traditori”, per i più svariati motivi, tra cui quelli della collaborazione impossibile o inesigibile. Ipotesi tra l’altro scomparsa nel decreto del governo Meloni. La mannaia cui deve sottoporsi l’illuso per poter chiedere al giudice di accedere alla liberazione condizionale presenta da subito il conto con l’inversione dell’onere della prova. Spetta all’ergastolano dimostrare di non essere più un mafioso. Ma anche molto altro. Intanto, di anni dal momento della sentenza definitiva ne devono essere passati trenta, e non più i ventisei attuali. Inoltre, nel caso recondito in cui la richiesta venga accolta, dureranno dieci anni e non più cinque i tempi della libertà vigilata.

L’ipotesi è comunque, con il testo approvato dalla Camera e gli aggravamenti previsti dal decreto, del tutto irrealizzabile. Chi ha scritto la nuova normativa lo sa benissimo. La base degli elementi che il detenuto deve dimostrare, è il suo distacco dalla criminalità organizzata. Ma non sarà più sufficiente il ravvedimento e neanche il percorso educativo e di trasformazione accertato dagli operatori del carcere e dal giudice di sorveglianza, che tra l’altro non sarà più un singolo ma l’intero tribunale. Occorrerà portare elementi concreti e attuali che escludano il presente ma anche il futuro, cioè “il pericolo di ripristino” di questi collegamenti, anche “indiretti o tramite terzi”. Come si fa a dimostrare l’inesistenza di un pericolo? Soprattutto se addirittura indiretto? Poi, come se già questo primo elemento non contenesse in sé una grande precarietà e vastissime possibilità interpretative, occorrerà motivare la propria assenza di collaborazione. Come in un confessionale di tipo talebano: quante volte hai peccato, figliuolo? Perché non ti sei pentito? Ed è chiaro che qualunque risposta, dalla dichiarazione di innocenza fino al timore per l’incolumità dei propri cari o l’impossibilità a raccontare quel che non si sa o quel che i magistrati già conoscono, sarà guardata con sospetto.

Anche perché ai giudici di sorveglianza è imposto l’obbligo, prima di prendere una decisione, di consultare il pubblico ministero del tribunale che ha emesso la prima condanna, oltre che la procura nazionale antimafia. E già immaginiamo le loro risposte. E’ poi necessario dimostrare di aver adempiuto agli obblighi civili conseguenza della condanna o giustificare l’impossibilità ad adempierli. Penserà poi la guardia di finanza, che potrà svolgere accertamenti patrimoniali sull’ergastolano e sui suoi familiari, a verificare se per esempio non esiste la possibilità del risarcimento del danno. Tutte queste dimostrazioni, tutte queste “prove d’amore” comporteranno tempi, burocrazie, e sostanzialmente l’impossibilità a raggiungere il traguardo. Che è poi l’intento vero di chi ha scritto e votato la norma. Con la decisione di ieri della Consulta, avallata nei fatti anche sul piano formale.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.