L’invito che quasi tutti i partiti hanno rivolto a Draghi per la sua permanenza a Palazzo Chigi sino al 2023 cambia lo scenario politico e le prove generali delle alleanze. Se l’immagine che Letta ha usato di se stesso come coach che deve provvedere a delle sostituzioni necessarie si riferisce alla utilizzazione di una pedina contro l’altra del mitico campo largo, allora la partita si complica. E la funzione di filtro coalizionale, che il Pd rivendica quale perno di un’area alternativa alla destra, rischia di andare presto in fumo perché bruciata nel gioco dissolutivo della caccia all’alleato che esce dalle righe e opera come un fattore di disturbo. La forza aggregante di un partito pivot deve escludere il passaggio brusco attraverso la demolizione dell’immagine di un partner tradizionale. Rispetto a Italia Viva la legittima disputa tattica e il confronto acceso su nodi politici si sono spinti ben oltre i livelli consentiti per chi rinuncia al ritorno al sistema proporzionale e quindi è condannato alla pratica delle larghe alleanze. Un partito a vocazione coalizionale non può assecondare gli istinti primitivi che spingono a richiedere misure punitive contro un antico alleato.

Quando Rosy Bindi chiede il Daspo contro Renzi accarezza il plebeismo che la politica sub specie social ha accentuato, ma non aiuta a tratteggiare una soluzione politica alla sfida che la Leopolda ha lanciato. Per una formazione parlamentare sorta da una scissione l’amplificazione della componente tattica dell’agire rientra nella fisiologia della politica. Il movimento è tutto per una costola fuoriuscita da un partito che, in assenza di una grande frattura sociale che chiede rappresentazione, deve creare artificialmente (anche con una certa dose di provocazione) una cesura per rintracciare lo spazio politico entro il quale insediarsi. Emettere la sentenza per cui Italia Viva con la sua tattica corsara sprigionata in più occasioni in aula si è già collocata a destra segnala un nervosismo miope di chi arranca nella comprensione del senso delle manovre. La resistenza di una eterogenea area liberaldemocratica alla formula suicida di Conte come imprescindibile punto di riferimento dei progressisti ha prodotto degli effetti positivi che proprio il Pd ha incassato dopo aver persino coltivato l’idea mortale di uno scioglimento anticipato delle camere a ridosso del fallimento dell’operazione sciagurata Polverini-Ciampolillo.

Spazzando via la subalternità irrimediabile di chi consegnava le chiavi dell’alternanza (e in realtà della sconfitta) all’avvocato del popolo, osannato come supremo eroe della resistenza contro il colpo di Stato delle multinazionali, proprio la riluttanza delle componenti liberaldemocratiche a marciare sotto l’ombrello di un bipopulismo a trazione grillina e sovranista ha restituito al Pd un ruolo di cerniera che Letta rischia nuovamente di compromettere con certe affrettate scomuniche dei centristi. L’esigenza renziana di una condivisione anche con il centrodestra del percorso accidentato che conduce alla designazione del nuovo Capo dello Stato rientra nell’abc della politica e il Pd farebbe bene a raccoglierla nelle sue implicazioni tutt’altro che banali. Pare evidente che le sorti già traballanti della legislatura dipendono dalla individuazione di una personalità capace di ricevere il sostegno delle forze che mantengono in vita il governo di tregua. Qualsiasi soluzione diversa, in un segno o nell’altro (maggioranza presidenziale con i grillini o con Salvini), sancisce la interruzione della esperienza e il voto anticipato.

Chiedere che Draghi si pronunci sul gradimento o meno del Quirinale è una colossale sciocchezza perché non esiste una candidatura autonoma a un ruolo per il quale continua a valere la regola aurea della chiamata. Sono i partiti a dover chiarire la loro intenzione circa la prosecuzione o meno del governo di tregua. L’equilibrio trovato attorno alla leadership di Draghi non è riproducibile con altre figure e le immagini di un semipresidenzialismo di fatto rientrano tra le interpretazioni caricaturali delle vicende istituzionali. Poiché non sembrano esserci alternative al fatto che accompagnando Draghi al Colle si convocano le elezioni per la primavera si tratta di procedere nelle operazioni tattiche con questa precisa consapevolezza. Nel quadro di una maggioranza di grande coalizione Draghi ha percepito nell’azione quotidiana del suo esecutivo l’esistenza di forze compatibili con un disegno riformatore e di partiti che frenano, sabotano il processo di innovazione. Dinanzi allo spettacolo di una destra che si propone con la strategia di un “nuovo patto di Varsavia” siglato con le formazioni sovraniste polacche e ungheresi serve ancora la leadership Draghi per non disperdere il lavoro di modernizzazione e far precipitare l’Italia in una deriva catastrofica. Uno schema bipolare classico non pare riproponibile entro un sistema che rimane disancorato.

Il campo largo ha una sua plausibilità solo attorno allo scenario di un Draghi non più investito dall’alto e coperto dal gradimento europeo (o tentato da una soluzione alla Monti come artefice di una propria personale area alternativa ai partiti), ma unto dal voto popolare che nel 2023 o anche prima si orienta attorno a due schieramenti. Il centro autonomo in questo orizzonte perde significato così come la funzione residua dei populisti grillini che dal soccorso ai gilet gialli ora fanno il tifo per Macron. L’emergenza repubblicana non è finita, perché a destra non è il moderato Berlusconi a distribuire le carte, il sovranismo che sinora è stato contenuto con le risorse dell’eterno trasformismo ora deve essere affrontato a viso aperto. Se Letta ha accarezzato l’idea di approfittare della situazione caotica per tramutarsi da coach in allenatore-giocatore che rivendica il comando per sé è meglio che rinunci subito alla suggestione, perché nelle condizioni date (lo sfibramento centrifugo a destra prevale su ogni competizione a caratura centripeta) l’imposizione di una formula neoulivista è propedeutica alla sciagura. È vero, Draghi non farà un suo partito, ma resterà in disparte in un suo buen retiro dinanzi al successo del nuovo patto di Varsavia?