Il nuovo governo e la 'guerra' dei ministri
Licia Ronzulli e la gioia feroce e scivolosa di Giorgia Meloni
Cuor di leone questi parlamentari del Partito-Azienda che quando l’orizzonte si fa nero e loro temono d’esser stati puntati dritti verso il muro, invece di mettersi contro al capo, fanno la guerra alla sua segretaria. Perché la neosenatrice Licia Ronzulli, assistente personale di Silvio Berlusconi da quando nel 2014 prese il posto dell’allontanata Maria Rosaria Rossi, sarà pure potente, potentissima in quanto detentrice della preziosa agenda di Arcore e della lista quotidiana degli ammessi al cospetto del presidente di Forza Italia. In grado quindi di farsi barriera invalicabile per gli esclusi. Ma non è dotata di potere autonomo. E che potere è un potere che non è autonomo?
Eppure, a causa del capriccio imputatole di aver voluto a tutti i costi un ministero di peso – qualsiasi purché di peso – dipinta come una erinni incaponitasi a voler stare dentro al governo per prendersi poi, chissà, ancora meglio il partito o almeno un pezzo di partito, è diventata il capro espiatorio di quel giovedì tragico in cui Berlusconi ha fatto il suo rientro in Senato e ha visto Ignazio La Russa eletto in prima chiama presidente di palazzo Madama anche senza i voti di Forza Italia. Come se il futuro del paese fosse dipeso tutto da una sola variabile: se e a quali condizioni Licia Ronzulli accettava di abbassare la testa. E come se lei potesse, senza chiedere il permesso a Berlusconi, imporre al suo partito una scelta politica.
Ora, bisognerebbe decidersi. È Licia Ronzulli una ex smistatrice di fanciulle dotate di trolley sulla strada di villa Certosa e anche e soprattutto per questo motivo non avrebbe le carte per guidare un eventuale ministero, oppure è una diabolica stratega, una fantasiosa esploratrice di nuove vie politiche in grado di imporre la linea a Silvio Berlusconi che notoriamente in Forza Italia decide anche in quale divanetto far sedere gli ospiti? Ha fatto una fulminea carriera là dentro perché faceva il semaforo nel via vai di Arcore oppure ha l’autonomia necessaria per condurre le truppe forziste dove vuole lei? Anche lontano da Arcore e sotto la direzione della Lega di Salvini?
A parte il fatto che non c’è molta ironia da fare sulla ex infermiera candidata a fare il ministro della Sanità in un paese in cui è stato ministro della Giustizia l’ingegner Castelli, ministro delle Infrastrutture lo stesso Danilo Toninelli che immaginava degli autogrill sul ponte di Genova e ministro degli Esteri Di Maio che confondeva Pinochet con Chavez e il Cile con il Venezuela, resta il fatto che tutto fa supporre che Licia Ronzulli sia sì molto influente, ma come si è influenti in una corte. È una funzione la sua, svolge una parte assegnatole dal capo, parte che dura se e fino a quando vuole il capo. Il capo esternalizza le scocciature, delega le beghe. Non gli piace non risultare simpatico, non vuole dire di no. Ha intorno un sistema in grado di farlo al suo posto. Su sua richiesta, col suo permesso.
Se non vuol ritrovarsi a cambiare rapidamente mansione, non ha nessun interesse Licia Ronzulli a non passare Berlusconi al telefono a qualcuno che lo sta cercando. Lei sa che sta lì anche perché si possa dire che se Gianni Letta, Denis Verdini o chiunque altro chiama Berlusconi senza riuscire a parlargli, non è certo perché Berlusconi non vuole rispondere. Da esperta e fidata assistente personale, la aspirante coordinatrice di un partito in cui le stanno facendo una guerra che sembra un tiro al piattello, si deve giocoforza limitare a eseguire gli ordini. L’ha fatto anche l’altro giorno, dopo che Berlusconi ha fatto sapere che ieri pomeriggio sarebbe andato lui a parlare con Giorgia Meloni nella sede di Fratelli d’Italia in via della scrofa, un gesto che ha tutta l’aria di esser stato preteso come un teatrale riconoscimento. Prezzo alto che è stato deciso di pagare. Si suppone a buon rendere.
Nella fotografia a sugello della tregua firmata, dopo il faccia a faccia, Giorgia Meloni appare raggiante. Di una gioia feroce. E anche scivolosa: una leader non dovrebbe aver bisogno dello scalpo del suo alleato. Se ha vinto davvero, le serve lo scalpo? Ha creduto di sì, saprà lei perché. Comunque a casa Berlusconi, appena è stato valutato in via definitiva che sì, valeva la pena andare fin là, a farlo incassare a Fratelli d’Italia, un po’ troppo eccitati per non far sciocchezze, il risultato della scena richiesta, è subito uscita una nota, a firma Licia Ronzulli, in cui dice la senatrice che nel gran girotondo di facce scure e minacce brandite di questi giorni non è mai stata lei il problema e che non lo è più. Essendo a chiunque chiarissimo il controsenso di quel “Il caso Ronzulli’ non è mai esistito, e comunque non esiste più”.
Un controsenso che era un fumogeno acceso a protezione dell’azienda del capo e del suo futuro lì dentro. Lei ovviamente all’incontro di ieri Berlusconi non l’ha accompagnato. E sarà lasciata fuori dal governo. Si affilano i coltelli nel partito. Chi là dentro scalpita perché vuol vedersi riconosciuto che da subito – non da ieri, non soltanto dopo che è stata diffusa la nota congiunta del pomeriggio con quel ‘Saliremo insieme al Quirinale’ – era per non mettersi di traverso sulla strada di Giorgia Meloni perché aveva capito già da prima che di puntare i piedi non era aria, vuol veder asfaltata la Ronzulli e, a scendere, tutti gli altri che avrebbero preferito provare a vendere un po’ più cara la pelle.
Imperturbabili, serafici, ostentano finta serenità quasi tutti quelli che, fino a ieri mattina, dicevano che avrebbero preferito andare al Colle senza Meloni e Salvini, senza allestire davanti a Mattarella il presepe della coalizione di destra compatta. E uno ad uno, i variamente e si suppone autonomamente convinti che con Fratelli d’Italia sarebbe meglio non chinare la testa – da Giorgio Mulé, a Alessandro Cattaneo, da Alberto Barachini a Roberto Rosso, da Dario Damiani a Paolo Zangrillo– sono tutti indicati come “i ronzulliani”. La guerra là dentro è dichiarata.
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