L’Occidente è finito. La storia è tornata. La guerra è qui per restare. Tre parti di un’equazione il cui risultato è univoco: l’Europa deve fare da sola. Deve cioè abituarsi all’idea che il mondo si va riorganizzando attorno a nuove sfere d’influenza e che vincoli e opportunità esterne, dall’ombrello difensivo americano alla globalizzazione dei mercati, non saranno più strumenti disponibili per la nostra crescita e per la nostra sicurezza.

Dire che l’Occidente è finito non deve suonare blasfemo né catastrofico. In fondo l’Occidente è un concetto piuttosto recente, creato prima sugli interessi e solo successivamente sui valori. Un libro dello storico inglese Niall Ferguson, dal titolo “The West and the Rest”, ripercorre le tappe dello scorso secolo che ci hanno resi protagonisti della vita internazionale. Scienza e medicina, consumismo, libera concorrenza ed etica del lavoro sono i settori e i valori su cui le economie più avanzate si sono integrate. Tanto è vero che l’Occidente è presto diventato un concetto ben più largo della sola dimensione geografica. Tokyo, Seul, Canberra sono latitudini lontane ma del tutto assimilabili al mondo occidentale.

Oggi si separano contemporaneamente le geografie, i valori e gli interessi. E questo determina la fine dell’Occidente. I paesi più distanti ed esposti geopoliticamente cercano nuove alleanze e ridefiniscono le loro sfere d’influenza, preoccupandosi più del ruolo del “Rest” che del destino delle alleanze tradizionali. I valori sono messi in discussione dall’Occidente e nell’Occidente stesso. Non occorre richiamare la cronaca di queste ore per comprendere la portata di questo ribaltamento di prospettiva. Gli Stati Uniti decidono di separare interessi e valori, polarizzando il mondo nella logica del più forte. Di conseguenza, gli interessi cominciano a prendere strade diverse. Quello americano guarda alla sola definizione del primato, che nella logica aziendalista significa minimo investimento, massima redditività, estrema autonomia.

Non è la fine del mondo, ma la fine di un mondo. Ecco perché, da adesso in avanti, noi europei dovremo fare da soli. Fare da soli vuol dire innanzitutto completare rapidamente il percorso di integrazione e prevedere una terapia shock di investimenti in Difesa, sicurezza e innovazione tecnologica. Gli investimenti non creano benefici immediati, per cui ci vorranno anni prima di vederne i frutti. Ma se non iniziamo subito, questo tempo si dilaterà e potrà essere insufficiente. La realtà dei numeri ci dice che l’Europa è un continente indebitato, anziano, con una crescita economica asfittica, incapace di difendersi e di proiettare all’esterno la propria forza militare. La prima cosa da fare, quindi, è riappropriarsi della parola “potere”, metabolizzarlo e rafforzarlo. Questo significa acquisire la consapevolezza che il potere si usa contro i nemici, certo, ma spesso anche contro gli amici. Il caso della Russia è emblematico: un paese con un arsenale militare e nucleare poderoso ma con un’economia di modeste dimensioni, in grado però di esercitare e far valere il proprio potere.

Le ricette per l’Europa ci sono e non sono nemmeno un numero infinito. Ma richiedono compattezza e una volontà senza precedenti. Serve innanzitutto, da subito, la nomina di un inviato unico per il fronte ucraino, qualcuno che possa parlare alle tre parti (Ucraina, Russia e America) con voce unica e autorevole. E poi ovviamente servono investimenti importanti in Difesa. Lo scudo atomico che può garantire la Francia, magari con la collaborazione del Regno Unito, altra potenza nucleare, da solo non basta. Il 4-5% del PIL in Difesa sembra una soglia necessaria e non perché lo chiede Trump, ma perché solo su quei livelli l’Europa può contemplare l’ipotesi di dover fare da sola.

Si tratta ovviamente di una rivoluzione che comporta irrimediabilmente sacrifici. Anche in questo caso l’analisi non è nuova. Già Angela Merkel ricordava come l’Europa contasse per il 7% della popolazione mondiale, il 25% del PIL mondiale e il 50% della spesa sociale mondiale. Una rivoluzione significa innanzitutto aggiustare questa equazione. La demografia è la variabile per ora più indipendente. È tardi per mettere in piedi politiche per la natalità efficaci, e comunque – se anche si partisse oggi – ci vorrebbe una generazione per vederne gli effetti. La stagnazione economica e il welfare sono invece due ambiti connessi e gestibili. Un’unione efficace sul mercato dei capitali, politiche fiscali coordinate, un debito pubblico comune e una revisione della spesa sociale che premi la produttività dovrebbero ridefinire il concetto di welfare, per liberare risorse utili a sostenere i tre pilastri di uno stato sociale moderno: istruzione, salute, sicurezza.

Gianluca Ansalone

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