Lo so, non c’è nulla di più provinciale che esaltare un’altra città, portarla a modello e lasciare intendere che lì si fanno cose che da noi neanche si immaginano. Ma come si fa a non citare Firenze? In questi giorni, mi è capitato di parlarne già una volta, a proposito della discussione sulle città del dopo-virus. Ora faccio il bis, per una ragione che riguarda sia il merito della questione, che poi è sempre la stessa, il riassetto urbano nel vivo dell’emergenza socio-sanitaria, sia il metodo, le procedure da usare per venirne a capo. C’era ancora il lockdown, quando il sindaco Nardella venne fuori con una intervista sulla nuova Firenze. I turisti non ci saranno più per un bel po’, disse. Dunque, mettiamoci al lavoro per immaginare un’altra città.

E giù una serie di proposte su come rivitalizzare il centro storico orfano degli americani in bermuda e dei giapponesi con le Nikon; sulle politiche per i trasporti, e su quelle per la casa, con particolare riferimento ai bisogni delle giovani coppie. Nulla di generico, magari esposto con una certa enfasi (Nardella ha parlato di un “bazooka urbanistico”), e sempre avendo ben chiaro il punto critico del bilancio comunale. Come reperire le risorse necessarie? Come coinvolgere i privati? Così impostato, sulla base di indicazioni precise, il dibattito ha preso il volo, ma – lo dico apposta – senza eccessivi svolazzamenti. Nessuno, insomma, a Firenze ha proposto passerelle sull’Arno per sostenere l’industria del wedding. O cose del genere. In questo clima di reciproca legittimazione tra sindaco e cittadinanza, tra chi propone, chi valuta e chi rilancia, e non come dalle nostre parti, dove se qualcuno fa una proposta raramente si trova qualcuno nel Palazzo interessato alla cosa; in un clima del genere, dicevo, ecco le ultime idee.

Vanno tutte nella direzione, più volte auspicata su queste pagine, di una città da rimodellare, più equilibrata, con quartieri meno “distanti”, e con una molteplicità di flussi da incoraggiare e governare. A Firenze si sono espressi in molti su queste linee programmatiche, tra cui il soprintendente Andrea Pessina. E il sindaco ha subito accolto i suggerimenti più interessanti. Pessina, ad esempio, ne ha avanzati tre. Il primo. Ha aperto all’ipotesi di un trasferimento di alcune opere d’arte dai musei alle chiese di provenienza, sempre che ci siano condizioni di sicurezza. Il secondo. Ha lanciato il progetto, ben più ambizioso, degli Uffizi-due, cioè di un nuova struttura fuori dal centro, con opere attualmente non esposte per mancanza di spazi, sul modello del Louvre-Lens, progettato per valorizzare un ex distretto minerario. Il terzo. Ha proposto di attrezzare, insieme con i gestori di bar e ristoranti, una serie di piazze tematiche: una per la musica all’aperto, una per i libri, un’altra per l’artigianato, e via immaginando. A una condizione, però.

“Basta con i dehors, con questi recinti che sottraggono spazi pubblici, solo sedie e tavolini”, ha detto il soprintendente ai beni architettonici e paesaggistici. Sul merito di queste proposte c’è poco da aggiungere: non tocca a me valutare la fattibilità di un Mann-due a Forcella o di una dependance del Madre a Scampia, ma è certo che sosterrei con entusiasmo l’idea delle piazze tematiche. Sul metodo, invece, c’è da dire, eccome. A Firenze il dibattito c’è, si nota, e coinvolge creativamente le principali testate cittadine. A Napoli, invece, abbiamo un sindaco che le idee non solo non le sollecita, ma se arrivano – perché anche qui i giornali, vivaddio, fanno la loro parte – non le calcola; e un governatore che talvolta le sollecita (ad esempio per gli stati generali della cultura e per la fase due) ma ugualmente mai le prende in considerazione.