"Difesa, serve uno scatto culturale"
Parisi: “Il Pd non è consapevole della gravità della crisi del Paese. Allineare le industrie militari europee per non comprare dagli Usa”
A colloquio con l’ex sottosegretario alla presidenza del Prodi 1 e ministro della Difesa nel Prodi 2

Arturo Parisi, già ordinario di sociologia politica, fondatore de l’Ulivo di Romano Prodi e per tre anni presidente dei Democratici, è stato ministro della Difesa nel secondo governo Prodi (2006-2008).
Il ministro Crosetto dice che non può esistere, ad oggi, un esercito europeo. E una difesa europea fatta di più eserciti?
«In effetti si è fatta e si continua a fare troppa confusione. A parte l’arcaica sineddoche “esercito” in luogo del complessivo “strumento militare”, sono troppi quelli che lo evocano con troppa leggerezza. Sinceri e appassionati europeisti che lanciano il cuore oltre l’ostacolo per andare avanti mescolati a europeisti di facciata che alzano l’asticella per stare fermi se non per tornare indietro. Questo è il momento delle parole esatte per riconoscerci nella direzione di marcia e perseguire tutti gli obiettivi perseguibili».
E tra gli eserciti europei come immagina possibile l’integrazione?
«Esattamente come accade nella Nato dove, pur distinti tra loro, a partire dal 1949 hanno nel tempo imparato a cooperare Paesi provenienti addirittura da diversi continenti arrivati a questo punto a 32, grazie al contributo decisivo dell’atteggiamento aggressivo di Putin. È peraltro all’interno della Nato che a parere della maggioranza di quanti vanno spendendosi per una comune difesa europea che deve essere costruito quello strumento militare condiviso presupposto indispensabile della invocata autonomia strategica per il contrasto delle minacce che per Trump non sembrano essere più prioritarie».
Tra i sistemi d’arma, le tecnologie, le apparecchiature europee ci sono ancora discrepanze importanti. Serve una cabina di regia sulla politica industriale, per cominciare?
«Una politica comune nella industria di rilievo militare è di certo il primo passo. Ineludibile. Senza questo il ReArm è una parola vana. All’esterno una minaccia a vuoto, all’interno un messaggio controproducente. Senza una autonomia industriale non c’è autonomia strategica. E l’invito di Trump ad aumentare le spese militari sì riduce ad un minaccioso invito ad accelerare ed estendere i programmi d’acquisto dall’industria a stelle e strisce. Una maldestra pressione che già da sola sembrerebbe produrre l’effetto opposto a quello cercato. Basta per tutti l’esempio della riconsiderazione dei programmi d’acquisto dagli Usa dei Caccia Multiruolo JFS F-35 non solo da parte del Portogallo ma dello stesso Canada che in pochi giorni Trump è riuscito a trasformare dall’alleato più vicino a quello più lontano».
L’Europa può avere la tecnologia, il know-how, avrà anche la mentalità, lo scatto culturale che serve ad affrontare uno scenario di difesa?
«Questo è il nostro ritardo maggiore. Anche se volere non è certo automaticamente potere, ne è la premessa e condizione maggiore. E nei Paesi democratici a differenza di quelli autocratici che sono all’origine della minaccia presente non basta il volere dei capi. A mancare soprattutto in Italia è una consapevolezza condivisa delle necessità della sicurezza e dei fini della difesa che consenta di prendere impegni e ancor di più tenerli nel tempo. Tra i cittadini ma non di meno tra i troppi che tra loro competono per la guida della Repubblica ma rifuggono il rischio e la fatica di spiegare le scelte dell’ora».
La piazza del Popolo di sabato scorso che messaggio ha dato?
«Che per quello che, prima del “campo largo”, chiamavamo “il popolo del centrosinistra”, l’Europa è restato l’unico maiuscolo Luogo Comune dove ritrovarsi attorno a un futuro, ma purtroppo può essere anche un minuscolo luogo comune dove consumare il nostro presente. Come Zagrebelsky ha confessato impotente su “Repubblica”, il quotidiano che, attorno a sé aveva convocato la piazza, una manifestazione ancora una volta pre-politica, una occasione per sfogare la nostra frustrazione».
Il Pd a Strasburgo la settimana scorsa si è diviso, come già accaduto in passato. E Schlein finisce in minoranza nel gruppo S&D. Serve un congresso per chiarire la linea?
«Serve parlarsi. Finirla finalmente con i documenti conclusivi che dicono “ascoltata la relazione del Segretario l’approva” con voti resi unanimi da qualche astensione o uscita dall’aula. Chiedersi dove vogliamo andare cioè guidare l’Italia. Voglio ripeterlo anche se senza troppe illusioni. Ripeterlo ancora una volta dopo averci provato personalmente tanti anni fa – era 2009 – dopo le dimissioni di Veltroni che avrebbero potuto e dovuto aprire una riflessione sul progetto del partito appena nato».
C’è qualcosa che non è mai stato chiarito nella definizione del Pd, manca cultura riformista, manca il realismo di governo?
«Manca la consapevolezza della gravità della crisi del Paese, e che solo la presenza di una proposta di governo alternativa all’esistente offre ai cittadini la possibilità di scegliere e prima ancora di pensare un futuro. Senza la possibilità di un futuro la politica finisce per ridursi ad una organizzazione eterna del presente, affidata all’avvicendarsi di politici percepiti anche oltre la realtà come eterni, e contro i quali l’unica alternativa è nelle ricorrenti rivolte populiste».
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