Le manifestazioni in diverse città cinesi contro le decisioni del Partito di imporre la politica dello zero Covid hanno suscitato commenti numerosi sulla crisi o sul possibile collasso del sistema autoritario in quel paese. Le informazioni che abbiamo sono solo parziali ed è quindi difficile avere una idea precisa sulla ampiezza del dissenso, che sembra esprimersi in particolare nelle grandi città, le quali hanno maggiormente sofferto questa scelta del governo, e da parte degli studenti. Dati i rapporti di forza, è poco verosimile che le manifestazioni di dissenso possano condurre a una messa in questione del potere del Partito o anche della mera scelta del lockdown (anche se qualche allentamento delle norme più rigide si è comunque visto).

Innanzitutto, bisogna tener conto del fatto che il Partito e Xi hanno favorito e imposto una scelta in linea di principio ragionevole e per certi versi come vedremo obbligata: quella di preservare la vita dei cittadini piuttosto che l’economia – come hanno fatto invece molti altri paesi, dall’America di Trump al Brasile di Bolsonaro. Il prezzo pagato è alto, ma se l’operazione di ridurre al minimo l’infezione e le sue conseguenze riesce – il che non è sicuro – bisognerà ragionare su se valeva la pena o meno perdere milioni di cittadini e avere minore decrescita economica. La Cina conta più di quattro volte il numero di abitanti degli Stati Uniti, che con la loro politica anti-Covid, lassista durante la presidenza Trump, hanno perso oltre un milione di persone.

È anche un fatto deplorevole, ma reale, che il sistema sanitario cinese e i suoi ospedali non sarebbero stati in grado di gestire quello che hanno potuto fare paesi più ricchi e con una solida tradizione di welfare come la Germania, la Francia e l’Italia, la quale ultima, in Lombardia in particolare, non è riuscita a far fronte soprattutto all’inizio della devastante epidemia. Certo i vaccini cinesi non sembrano essere stati di qualità altrettanto efficace di quelli occidentali, ma siamo ridotti a speculazioni se cerchiamo di immaginare cosa sarebbe accaduto (il numero di morti, che è tutto fuorché un dettaglio, perché non conta solo l’economia) se le misure restrittive fossero state diverse e meno rigide.

Come che sia, la politica del Partito sul controllo del Covid ha prodotto a lungo andare una protesta di dimensioni inedite, se si esclude la vicenda di Tienanmen, che aveva visto sviluppi particolarmente violenti e il coinvolgimento significativo di gruppi sociali diversi dagli studenti e anche un conflitto dentro il Partito, tutti elementi che, per ora, non sembrano essersi prodotti. Tuttavia, è sull’emergere di tale protesta dentro un regime autoritario che vale la pena di avanzare qualche riflessione. A noi sembra che la protesta sia una conseguenza indiretta della politica economica del Partito (che ci sembra superficiale e retorico chiamare “comunista” come continuano a fare loro e noi occidentali) il quale, a partire dalle riforme di Deng e del suo successore Jang Zemin, ha aperto alla economia di mercato, producendo rapidamente una eccezionale crescita economica che non ha verosimilmente equivalenti nella storia e, come conseguenza, una massiccia riduzione della povertà.

L’emergere delle classi medie urbane come risultato dello sviluppo economico ha in grande misura modificato la natura e il volto della società cinese, che fino a pochi decenni fa era caratterizzata essenzialmente da enormi masse di contadini poverissimi. I sistemi autoritari hanno molta più grande facilità a sopravvivere in società povere, dove la privazione dei diritti soggettivi è meno sentita che in quelle più ricche. In società che non sono più, almeno per larghi strati della popolazione, oppresse dalla povertà, nasce con maggior forza il sentimento della libertà come capacità di scelta. Soprattutto fra i gruppi con più ampia cultura – come gli studenti universitari. La protesta in Cina è dunque in realtà il segno dello sviluppo economico e sociale del paese. Detto questo, ci sembra infondato pensare che il regime sia in crisi e ancor meno che si accosti al sole di un avvenire democratico.

Il Partito è potente e ha ancora un forte sostegno popolare, soprattutto fra i meno giovani che hanno visto migliorare notevolmente il loro livello di vita nel giro di una generazione. In sostanza, sembra esserci una contraddizione fra sviluppo economico e autoritarismo, e in Cina dopo Mao lo sviluppo economico è stato il fondamento della legittimità del potere del Partito. Oggi esso dovrà far fronte al rallentamento dell’economia – come peraltro accade anche per i paesi occidentali – ma anche alle richieste di maggior libertà che vengono dalla società che il partito ha prodotto.

L’autoritarismo cinese è un regime che non basa la propria legittimità sulle elezioni libere e competitive, ma esso ha permesso lo sviluppo economico del paese e il miglioramento delle condizioni di vita di un grandissimo numero di cittadini. Resta il fatto che ora che lo stomaco della maggior parte dei cinesi non è più vuoto, un certo numero di questi comincia a interrogarsi sui valori.

Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino

Autore