La rete. La rete. Da due giorni in Brasile la parola è diventata una formula magica. Senza la rete pazientemente e umilmente tessuta negli ultimi mesi da Lula, che per togliere alla destra estrema il governo e tornare al potere s’è messo a tavolino con tutti i soggetti politici esistenti dalla sinistra estrema alle forze conservatrici non reazionarie, l’ex capitano militare Jair Bolsonaro non sarebbe stato sconfitto. Quell’ 1,8% di vantaggio alle presidenziali che ha permesso domenica a Lula di tornare alla guida del Brasile è stato raggiunto grazie alla mobilitazione del partito dei lavoratori e del movimento dei sem terra, ma sarebbe stato impossibile senza i voti delle altre otto formazioni politiche che hanno formato con Lula il fronte anti Bolsonaro.

Lezione di intelligenza politica del vecchio Lula. Il radicalismo di sinistra da solo non vince oggi in America latina. Troppo forte l’onda reazionaria, troppo insidiosa l’antipolitica (fortissima a sinistra) che finisce sempre per spalancare la strada alla destra. Lo schiaffo in faccia preso solo due mesi fa, al referendum per la ratifica della nuova Costituzione, dal presidente Boric in Cile lo dimostra. Il governo cileno – il governo più giovane per età dei suoi componenti e più genuinamente a sinistra al momento in America latina, con i ministeri chiave e la presidenza della Repubblica in mano ai protagonisti politici della rivolta sociale che ha cacciato l’anno scorso la destra dalla Moneda – ha preso una mazzata alle urne il giorno in cui s’aspettava di essere consacrato dal voto per la ratifica della nuova Costituzione. Che è stata invece nettamente rifiutata.

Il nuovo testo proposto avrebbe dato una delle cornici normative più progressiste ed egualitarie esistenti al mondo a una delle società più conservatrici della Terra. E lì è stato l’ingenuo errore. Invece di fare fronte mediando con i moderati, la sinistra radicale ha messo a punto un testo da avanguardia progressista. Senza contrattare prima nulla con nessuno. Il 62% dei cileni ha ritenuto che si stesse andando troppo lontano e troppo in fretta. E ha detto no. Il presidente Gabriel Boric, arrivato al governo dalle barricate del movimento studentesco del 2019, non aveva nascosto di aspettarsi dal voto sulla nuova Carta costituzionale un nuovo impulso per imprimere un’accelerazione alla sua sterzata a sinistra del Cile. Immaginava che l’approvazione della nuova Carta, cancellando la Costituzione voluta dal dittatore Augusto Pinochet e rimasta da allora quasi intatta, avrebbe cancellato anche le remore verso la sua leadership. Non è andata così.

Molto più della metà dei votanti – in Cile il voto è obbligatorio – ha detto no alla proposta redatta dall’Assemblea costituente. Si trattava di una proposta molto radicale nel riconoscimento dei diritti, molto inclusiva, molto dichiaratamente spalancata verso un mondo aperto ed antirazzista, senza barriere di censo all’ingresso. Niente di politicamente fantascientifico, ma tutto lontanissimo dal sentire comune della parte più conservatrice del Paese che è largamente maggioritaria in Cile. Sanità pubblica gratuita, diritto allo studio universale e gratuito, diritto alla casa, diritto alla libera identità sessuale, aborto legale, autonomia per le popolazioni indigene. Bocciatura senza appello. E ora? La destra cilena, una reale estrema destra ancora fradicia di pinochettismo, prenderà da questo insperato trionfo un grande slancio per tentare di disarcionare Boris dal governo.

Non è detto che ce la faccia, ma per il giovane governo cileno la strada ora è tutta in salita. Qual è stato l’errore dei 155 costituenti, una metà dei quali eletti come indipendenti e totalmente inesperti delle regole fondamentali della politica? Il solito vecchio errore della sinistra latino-americana: l’infantilismo, l’incapacità di tessere compromessi politici e la smania di fare i conti senza l’oste. Infine: l’antipolitica.
Troppa fretta di svoltare radicalmente a sinistra, scarsa analisi della società, sottovalutazione delle forze di reazione dell’avversario, ostinazione a non cercare mai una mediazione politica. E il vecchio vizio di procedere a spallate, di imporsi sulla metà del Paese che la pensa in maniera opposta. Non si può far così nelle società altamente polarizzate, non si può scommettere di vincere contro l’altra metà del Paese. Pena: rischiare di perdere. E infatti la sinistra radicale cilena ha perso. E di brutto pure.

C’è stata tra i cittadini un’incertezza generalizzata sulle implicazioni di alcune norme e sono circolate molte balle alimentate ad arte da un’abile campagna di disinformazione. Molte persone hanno creduto che la nuova Carta avrebbe proibito la proprietà privata delle case e reso libero l’aborto fino al compimento del nono mese. Dopo il plebiscito del 2020 che chiedeva di modificare la Carta di Pinochet, i cileni hanno eletto più di 150 persone con il compito di redigere la nuova Costituzione. I candidati indipendenti hanno vinto più della metà degli scranni. Tra loro avvocati, professori, giornalisti, attori, qualche dentista, un meccanico, un maestro di scacchi, e molti movimentisti di estrema sinistra. Diciassette tra loro erano rappresentanti delle popolazioni indigene del sud. La costituente era orientata a sinistra per più di due terzi dei suoi membri.

Questo variegato mondo radicaleggiante ha preso il controllo totale della scrittura del testo. Non ha avuto bisogno nemmeno di un voto dei conservatori e quindi li ha tenuti fuori. E non ha capito che il problema di confrontarsi con chi la pensa diversamente gli si sarebbe ripresentato il giorno del voto popolare. Il Cile da qualche anno vive un processo di profonda ridefinizione nazionale. Due anni fa quasi l’80% dei cittadini ha votato approvando la volontà di riformare la carta costituzionale in vigore, una gabbia normativa voluta dal regime Pinochet (1973-1990) e rimasta sostanzialmente inalterata tranne un lieve lifting. Nonostante il testo in vigore non includa alcune delle parti più apertamente antidemocratiche dell’impianto normativo originale, la sua totale sostituzione era avvertita da buona parte del Paese come un passo necessario per convertire il Cile in un paese genuinamente democratico.

A luglio l’assemblea costituente ha messo a punto una proposta. Tra gli articoli sui quali più polemica c’è stata, c’erano quelli che riconoscevano alla popolazione indigena il diritto ad avere autonomia sul suo territorio e sull’amministrazione della giustizia nelle aree a maggioranza indigena. E’ considerato appartenente ai “pueblos originarios” il 13% dei 19 milioni di cileni. Contro di loro c’è un razzismo feroce, appena mascherato. Negli stati del sud negli ultimi anni gli scontri sorti contro le rivendicazioni della popolazione indigena sono stati feroci. È stato proprio negli stati del sud che il no alla nuova Costituzione è stato più diffuso. Il presidente Boric ha detto che si metterà immediatamente a lavorare per mettere a punto una nuova proposta. Ma sa che ha un margine stretto.

La decisione di sostituire la costituzione pinochettista con un nuovo testo è uscita dalle rivolte del 2019, iniziate contro il caro tariffe del biglietto dell’autobus e poi dilagate diventando la rivendicazione di una società meno classista. Quelle proteste hanno lasciato un saldo finale di 30 morti. Dopo mesi e mesi di strade incendiate è stato deciso di sottoporre la Costituzione a un plebiscito. Due anni fa quasi quattro cileni ogni cinque hanno votato in favore di una revisione del testo. Ma la visione rivoluzionaria presentata dall’assemblea costituente è risultata troppo drastica. Un passo ingenuo da radicalotto di sinistra che Boric si presumeva non avrebbe fatto.