Che la grande prova generale per la democratura abbia inizio. Tanto per vedere l’effetto che fa il manganello legislatore, non c’è niente di meglio che gettare in pasto all’opinione pubblica, incantata a media unificati dal successo della “Thatcher italiana”, una norma dalla potenza liberticida. Il decreto contro i “raduni pericolosi” è anzitutto un manifesto ideologico, che esprime l’essenza illiberale del populismo penale una volta eretto a sistema di governo.

La filosofia del nuovo provvedimento è semplice: cosa c’è di più degno del sommo disprezzo, nella percezione della componente più benpensante della “Nazione”, che non l’immagine di una massa di sradicati, sbronzati, con il corpo coperto da tatuaggi, pronti a inebriarsi in un oceano di fumo? Dopo le botte alla Sapienza, la destra ci teneva tanto a partire con il botto. Ed ecco il decreto che trasforma il diritto penale in un esercizio di ideologia dell’ordine. La riprovazione sociale per il drogato, lo smidollato, il nullafacente, il capellone, secondo uno spartito classico della peggiore destra, serve per invocare lo Stato forte e restringere gli spazi di libertà per tutti.

Lo ha detto “la fuoriclasse” salita a Palazzo Chigi: “lo Stato non si fa mettere i piedi in testa”. E per questo, con norme scritte davvero con i piedi, ha scalciato la testa delicata dello Stato di diritto, adottando una legislazione identitaria con l’ambizione di lasciare in eredità ai posteri il messaggio chiaro che con la patriota al potere “la pacchia” era davvero finita. I camerati no vax devastano la sede della Cgil? Il volto duro dello Stato cancella le sanzioni ai medici antivaccinisti che hanno sofferto troppo per una repubblica vittima di un “approccio ideologico”. Migliaia di fascisti accorsi a Predappio rendono omaggio al Cavaliere Benito Mussolini con un orgoglio mai esibito prima? Il collezionista di cimeli di stanza a Palazzo Madama, per certificare che il vento è cambiato, annuncia che questo 25 aprile non sarà mai la sua festa.

Incidente di percorso, azzardo dovuto all’inesperienza, provocazione del polo non più escluso, errore di calcolo? Nulla di tutto questo. Semplicemente, questa vocazione alla “democrazia illiberale” è scandita nello spirito della nuova classe dirigente. Se al governo si insediano statisti che sono cresciuti tra divise naziste, busti del duce, croci celtiche e saluti romani esibiti nelle terre che diedero i natali a Lui, fanatiche evocazioni di Dio, patria e famiglia, il minimo che possano fare, in qualità di legislatori “patrioti”, è un decreto che condanna a 6 anni di galera (con conseguente possibilità di intercettazioni capillari) gli organizzatori di adunate cosiddette “pericolose”. Esagerano in Francia a reclamare una sorveglianza speciale sulla legislazione italica che promette di straripare e coprire con brutti detriti la stanca democrazia liberale. E però le rassicurazioni circa la solidità degli organi della repubblica, nella loro attitudine di attivare tutti gli anticorpi necessari per sventare i rigurgiti neoautoritari, vanno considerate alla luce delle sfide reali e dell’efficacia dei comportamenti adottati.

Con sorpresa indubbia, appena qualche ora dopo averlo ricevuto nello studio del Colle, il Presidente della Repubblica ha accordato la firma ad un testo che forse, vedendo i toni della reazione delle opposizioni e le argomentazioni di validi penalisti, avrebbe meritato una più critica considerazione in sede di controllo preventivo di legittimità. Un atto dovuto? Stavolta non è accaduto come nel 2009, quando Napolitano rifiutò di firmare il decreto del governo Berlusconi sul caso Englaro e con determinazione difese l’essenza dello Stato di diritto. Scrisse in una lettera di assoluto rigore e fermezza l’allora Capo dello Stato: “Io non posso, nell’esercizio delle mie funzioni, farmi guidare da altro che un esame obiettivo della rispondenza o meno di un provvedimento legislativo di urgenza alle condizioni specifiche prescritte dalla Costituzione e ai principi da essa sanciti”. Il conflitto tra poteri è, in certi frangenti critici, un elemento essenziale e vitale per la salute delle istituzioni. Rispetto a Napolitano, che non si tirò indietro dinanzi ad “un contrasto formale in materia di decretazione d’urgenza”,

Mattarella ha seguito un itinerario differente e al momento non esente da possibili rilievi critici, poiché accorda vigenza a norme rischiose nel settore penale. Quello che colpisce nell’iter del decreto sulla “invasione” degli spazi pubblici e privati è la celerità con la quale il Quirinale ha condotto il preliminare accertamento degli eventuali risvolti incostituzionali, da emendare (se presenti) con successive correzioni e miglioramenti. Segno che, per il primo custode della Carta, se pure il decreto presenta dei vizi, si tratta di errori marginali e correggibili nel corso delle procedure parlamentari di conversione (con revisione, magari) del testo. Intanto però, dal momento che manifeste antinomie con la Costituzione non sono state rilevate, l’efficacia immediata del decreto legge fa sì che per l’occupazione di un palazzo di vetro sulla Romanina o di un liceo si rischino 6 anni di fresco a Rebibbia.

E, pur in presenza del rischio di processi di massa (anche per i semplici partecipanti sono infatti previste pene rilevanti, sia pure di entità inferiore rispetto a quelle comminate agli organizzatori accertati), restano i dubbi sulla capacità del Parlamento di attivare una funzione correttiva immediata dinanzi agli abusi di potere che sempre si celano dietro a fattispecie penali volutamente configurate in maniera generica e vaga. Accolta la rinuncia dell’esecutivo ad abrogare l’obbligo di mascherina negli ospedali e tra gli anziani fragili, il Presidente ha forse ritenuto che altro non avrebbe potuto ottenere dagli uomini nuovi, che appena qualche anno fa lo raffiguravano -le parole sono dello statista in forte ascesa Fazzolari- come un “rottame” o un “aspirante demone” (per via dei quasi 666 voti ottenuti in sede di elezione) e lo criticavano, ironia della sorte, per il mancato interventismo (“non ha avuto nulla da ridire sulla Fedeli ministro dell’Istruzione e Alfano ministro degli Esteri”).

Il nuovo decreto, però, evidenzia diverse criticità sul piano politico-costituzionale. In primo luogo, l’introduzione di una nuova fattispecie di reato, che allarga le tipologie già previste nel diritto penale, tramite lo strumento governativo della decretazione d’urgenza costituisce, secondo alcuni autori, una forzatura palese del ricorso alle prerogative a disposizione dell’esecutivo. È vero che la dizione “se non in forza di legge” ha assunto, a partire dalla giurisprudenza costituzionale degli anni ’70, una valenza più ampia, fino a comprendere non solo la riserva di legge formale (riferita esclusivamente alle norme di produzione parlamentare), ma anche quella di legge ordinaria (comprensiva anche degli atti aventi forza di legge, come i decreti legge). E tuttavia rimane valido il principio generale del costituzionalismo per cui una nuova figura di reato (che concerne temi scivolosi come le libertà personali, nel caso di specie il diritto di riunione) avrebbe preferibilmente richiesto l’adozione di requisiti di legalità più stringenti: la via parlamentare si configura come più ragionevole percorso per la qualificazione di nuove pene e reati.

Appare poi arduo ravvisare i profili dell’urgenza e della necessità, richiesti per il decreto legge, a sostegno della decisione rivendicata da Meloni di varare un provvedimento sbandierato come esemplare risposta alla adunata giovanile di Modena. Con le norme vigenti era stato infatti possibile per le forze di polizia contrattare l’abbandono del tutto pacifico, e con tanto di sistemazione in ordine, dell’area assai degradata occupata. Anche il principio garantista della determinatezza del reato vacilla sotto i colpi di un decreto scritto in maniera ambigua (rinvio all’ordine, incolumità o salute pubblici) e quindi suscettibile di interpretazioni talmente discrezionali da lambire l’arbitrio. Al di là delle precisazioni contenute in interviste e dichiarazioni dei ministri, il reato sin troppo elastico di “raduno pericoloso” potrebbe dare al potere l’opportunità di avvalersi di strumenti repressivi per perseguire i centri sociali, le manifestazioni non autorizzate, i picchetti operai, le occupazioni studentesche.

Dinanzi ad abusi linguistici, ad equivoci terminologici, lo spiegava già Hobbes (Leviatano, Cap. XXVI), “basta un interprete astuto per fare assumere alla legge un significato opposto a quello datole dal sovrano; col che l’interprete diventa il legislatore”. Su reati che ricadono sulle sfere di libertà non sono tollerabili formule ambiguamente sospese nel loro puntuale significato e quindi adoperabili da qualsiasi procura per esercizi creativi di repressione. A lasciare perplessi è, infine, l’eclatante sproporzione tra il massimo edittale (6 anni di reclusione, più dell’omicidio colposo e dell’occultamento di cadavere) e la gravità della fattispecie criminale (riunione non autorizzata di più di 50 persone in uno spazio pubblico o privato dalla quale “può derivare” un pericolo per l’ordine pubblico, l’incolumità pubblica o la salute pubblica, tutte nozioni assai vaghe).

Per il penalista Fiandaca costituisce “manifesta incostituzionalità”, alla luce del principio di ragionevolezza-proporzione, l’assenza di una marcata differenziazione nel trattamento punitivo tra organizzatori e semplici partecipanti. Insomma, non mancano rilievi che avrebbero potuto sollecitare il Colle all’assunzione degli strumenti garantistici preventivi a disposizioni dei custodi di un ordinamento democratico-costituzionale. Il precedente di Napolitano, che, dopo l’apertura al dialogo con il governo (“confido in una pacata considerazione delle ragioni da me indicate”), dinanzi alla chiusura irritata di Berlusconi (“la decisione sui requisiti di necessità ed urgenza di un decreto legge spetta al governo, non ad un altro organo”) intraprese la via di un esplicito scontro istituzionale, rimane una pietra miliare nella storia del costituzionalismo attivo e, proprio per questo, costruttivo di spazi di libertà nei momenti più difficili. Senza il conflitto aperto tra poteri dello Stato si restringono i margini di manovra a disposizione di cruciali istituti di controllo e garanzia, che declinano nella loro competenza procedurale dinanzi al cammino di una fabbrica populista di reati escogitati come bandiere di un’ideologia poliziesca da “democrazia illiberale”.