Da sempre l’attenzione dei media è concentrata sulla giustizia penale e ciò ben comprensibilmente: le disfunzioni dei procedimenti penali e gli errori commessi in sede giudiziaria sono sentiti come particolarmente odiosi dai cittadini, essendo in grado di ledere beni di primario rango costituzionale, quale la dignità e la libertà degli individui. È del pari vero, però, che l’inefficienza dei processi civili è in grado di colpire aree altrettanto sensibili dell’economia e della società: in un’economia globalizzata che impone il raggiungimento di alti standard in tema di competitività ed efficienza, una giustizia lenta e farraginosa è inutile o addirittura dannosa.

Sennonché, sono almeno trent’anni che si discute di effettività della tutela giurisdizionale, ma nessun concreto passo avanti è stato compiuto, nonostante le numerose riforme che hanno toccato il codice di procedura civile. Vari sono stati i tentativi di accelerare i tempi della definizione delle cause sia all’interno che al di fuori del processo. Quanto alla giustizia amministrata fuori dalle aule dei tribunali, sia consentita una breve riflessione: da circa una decina d’anni il legislatore ha cercato di ridurre il carico di lavoro dei magistrati obbligando i cittadini a ricorrere a forme “alternative” di risoluzione delle liti, affidate a persone (i cosiddetti mediatori) non sempre culturalmente e giuridicamente preparate.

Ebbene, mi pare che l’attribuzione a soggetti privi della necessaria preparazione del potere di comporre liti spesso complesse e delicate non sia scelta felice. In altre parole, impedire ai cittadini l’accesso alla giustizia imponendo l’uso obbligatorio di strumenti alternativi di risoluzione della lite, quali la mediazione e la negoziazione assistita, si pone in contrasto con l’idea vera di giustizia. Meglio sarebbe recuperare la (forse antica, ma non per questo sbagliata) concezione del magistrato quale arbitro-conciliatore del contrasto tra le parti, avente il compito di condurre i litiganti verso una decisione condivisa. La conciliazione, insomma, non è una soluzione da scartare, anzi; ma, trattandosi di un’attività delicata, deve essere condotta all’interno del processo dal giudice.

So bene che l’opzione di affidare al processo la risoluzione di ogni tipo di controversia si scontra con l’eccessivo carico contenzioso gravante sui tribunali del Paese. Proprio allo scopo di alleggerire il ruolo dei magistrati, negli ultimi anni sono state escogitate numerose misure, tutte a costo zero. Dunque, il problema è sempre lo stesso: la mancanza di risorse adeguate per far fronte al problema dello smaltimento dell’arretrato. Sennonché, occorre prendere atto di questa realtà e cercare di utilizzare in modo efficiente e razionale le risorse attualmente esistenti. Si è tanto parlato di economia processuale: con tale locuzione, diventato un vero e proprio slogan, si vuole soprattutto fare riferimento al tentativo di diminuire il numero di liti derivanti dall’interazione sociale e quelle risolte dalle Corti, a parità di risorse impiegate.

Ora, a mio avviso, l’economia processuale può essere realizzata attraverso l’attribuzione ai giudici di poteri discrezionali. Occorre cioè cambiare il modo di concepire il ruolo del magistrato nel processo: non più semplice risolutore delle controversie, ma vero e proprio manager, dotato di ampi poteri nella scelta delle modalità in cui il processo deve svolgersi, in modo da conformarlo alle esigenze concrete della lite, così ottenendo dal sistema la massima efficienza possibile. Affermava Carnelutti che la struttura del processo deve essere in funzione della tipologia della lite; così come il medico prescrive cure diverse a seconda delle differenti patologie che presentano i malati, così il magistrato deve adeguare il processo alla complessità della causa.

D’altronde, è ciò che accade negli altri ordinamenti: così, per citarne solo alcuni, accade in Francia e nel Regno Unito, dove è il giudice a scegliere il procedimento in base alle caratteristiche individuali di ciascuna causa civile, foggiando il rito come un abito su misura per la singola lite, secondo una valutazione di economia processuale ed efficienza, senza pregiudizio alcuno del diritto di difesa. In tal modo, si evita lo sperpero della “risorsa giustizia”, oggi quanto mai limitata e preziosa, dedicando al singolo caso tempi e risorse adeguati, sia rispetto alle esigenze di quel caso, ma anche a quelle complessive del carico giudiziario. Nell’attuale sistema, invece, è il legislatore a prevedere in via astratta quale rito applicare alle diverse cause, con due conseguenze: la prima è quella della creazione di un sistema rigido, incapace di adattarsi al singolo caso; la seconda è quella della moltiplicazione dei riti, con notevole disorientamento non solo per il comune cittadino, ma anche per gli operatori del sistema giustizia.

Merita però di essere chiarito che, affinché questo modello processuale sia in grado di funzionare, occorre porre mano ad una seria riforma della responsabilità dei magistrati: in tanto è possibile affidare al giudice poteri manageriali in ordine al modo di svolgimento del processo, se e in quanto siano previsti adeguati controlli sul suo operato, così come d’altronde accade in quasi tutti gli ordinamenti europei. Il processo civile deve essere come un Giano bifronte: guardare sia alle ragioni di economia processuale sia alla tutela dei diritti fondamentali delle parti; a tal fine occorrono giudici responsabilizzati e solidamente preparati, messi nelle condizioni di poter studiare la lite prima di presenziare l’udienza, non solo per essere in grado di scegliere il modello processuale più adeguato alle esigenze delle parti, ma anche per tentare la composizione amichevole della lite.

Sennonché, perché tali auspici possano davvero tradursi in realtà, occorre ancor prima procedere ad un’ampia riforma del percorso universitario dei giovani che aspirano a divenire giuristi: come già due secoli orsono affermava Emanuele Gianturco, occorre formare il giurista nel suo complesso per renderlo idoneo ad affrontare qualsiasi mestiere. Occorrerebbe in altre parole creare un percorso comune per la specializzazione dei giovani, al pari di quanto accade in altri ordinamenti europei, così evitando che gli attori dei futuri processi abbiano una formazione giuridica troppo diversificata tra loro.