La scorciatoia è facile e c’è chi, reso scomposto dall’imbarazzo, l’ha già percorsa con qualche interessata sortita giornalistica. Alimentare il timore che la lunga lista di testimoni (133), predisposta dal dottor Palamara in vista del processo disciplinare, sia il prologo di una gigantesca chiamata in correità, è il modo migliore per tentare di affossare del tutto la difesa dell’incolpato e ridurla in cenere in quattro e quattr’otto. Una bella pietra tombale sullo scabroso affaire su cui scolpire un epitaffio adeguato al caso, ad esempio L’uomo che volle farsi re (John Huston, 1975). Quale modo migliore per coalizzare in massa contro l’ex-presidente dell’Anm le principali istituzioni del Paese, i politici più avvezzi alle interlocuzioni con le toghe, i titolari dei più importanti uffici di procura (come si diceva, di giudici se ne vedono pochini in questa sciarada di carriere) che far credere loro di essere chiamati a rispondere di chissà quali malefatte commesse sulle note del reprobo pifferaio magico delle correnti.

È certo una possibilità e, per qualcuno dei menzionati nella lista, forse anche un rischio effettivo. Ed è pure la tesi di persone sicuramente perbene ed esenti da qualunque interesse a celare la verità. Peppino Caldarola, già direttore de L’Unità, ha scritto di recente: «La vicenda Palamara è inquietante. L’elenco dei “famosi” che lui chiama in soccorso, o per complicità, sembra descrivere un’associazione che, se fosse stata di destra, avremmo chiamato con l’ennesimo numero accanto alla sigla P2». È un giudizio che non si può condividere sino in fondo, perché tra quei nomi si scorgono quelli anche di vittime eccellenti del sistema spartitorio che hanno pagato la loro estraneità a quella razza padrona con torti e ingiustizie di vario genere. Per tentare una lettura un po’ più elaborata di quella lista occorre partire da una premessa, forse didascalica e noiosa, ma inevitabile: ossia che si tratta di un atto processuale. Nel processo penale, sulle cui movenze è regolato quello disciplinare, la lista dei testimoni a discarico è il principale atto della difesa. È il cuore della strategia difensiva. Il nocciolo duro e lo snodo di ogni possibilità di assoluzione. Su quei, in genere pochi, fogli di carta, spesso, si perde e si vince. Non serve, la lista, a consumare vendette o a mandare segnali, mira piuttosto a vincere seguendo un percorso, impostando la confutazione dell’incolpazione e delle prove portate dell’accusa.

Da questo punto di vista la mescolanza di carnefici e vittime del sistema spartitorio che il dottor Palamara vorrebbe squadernare innanzi alla Disciplinare pone una scelta drammatica per chi dovrà decidere: o si chiude la bocca all’incolpato non ascoltando neppure un testimone oppure diviene difficile setacciare tra nome e nome senza dare l’impressione che si voglia mantenere taluno esente da imbarazzi e scaraventare altri sul proscenio di un processo che sarà sotto gli occhi di tutti i media. Una sorta di vittimizzazione secondaria, così la chiamano gli esperti, difficile da digerire. Non solo l’ingiustizia patita, ma anche la probabile gogna della testimonianza pubblica con tutte le sue asperità e i suoi trabocchetti. Un danno d’immagine non trascurabile. Due opzioni di cui la difesa del dottor Palamara avrà ben calcolato gli effetti: nel primo caso sa l’incolpato che sarà difficile pronunciare una sentenza di condanna che sia esente da censure da portare subito dopo innanzi alla Cassazione o alla giustizia europea per la compressione del diritto di difesa; nel secondo caso si sfrutterà il vantaggio di assumere la testimonianza di chi ha subito un torto per evocare la responsabilità dei correi assenti. Un vero e proprio processo contumaciale in danno di persone che, comunque, non avranno potuto esporre il proprio punto di vista o fornire la propria versione dei fatti.

Un vero incubo processuale che interpella la moralità e la professionalità dei giudici disciplinari al livello più alto, poiché certamente nessuno vorrà macchiarsi dell’accusa di aver celebrato un processo sommario, ma neanche qualcuno vorrà portare il fardello di una Norimberga delle toghe dai tempi imprevedibili e dagli esiti incalcolabili. L’accelerazione che la vicenda ha subito dopo la seconda – meno selettiva e interessata della prima – pubblicazione di chat lascia presagire un epilogo ravvicinato e rapido della vicenda. Ma nulla è scontato. Al di là dei proclami al rinnovamento morale, alla palingenesi etica, al soprassalto deontologico (roba sostanzialmente inutile in un corpo lacero e infetto che attende cure da cavallo), il processo è la sede insostituibile e irrinunciabile per l’accertamento dei fatti da cui muovere per la conseguente riforma della magistratura italiana. Sarebbe una iattura terribile se proprio le toghe mandassero alla pubblica opinione anche solo un segnale di preoccupazione o, peggio ancora, di paura verso il processo Palamara. Tra i testimoni si scorgono nomi di toghe che attraversano in lungo e in largo la penisola incitando i cittadini alla collaborazione con la giustizia, a testimoniare, a denunciare. Sarebbe curioso che, ora, chiamati al dovere di dire la verità assumessero atteggiamenti scomposti e riottosi, al limite dell’omertà.

Già l’Anm – con ragioni formalmente corrette, ma rimaste poco comprensibili ai cittadini – ha negato al proprio ex-presidente di discolparsi prima di essere espulso. Ora il Csm è vocato a una scelta complessa e per giunta nell’esercizio della sua funzione più alta, quella giurisdizionale visto che, si badi bene, le sentenze disciplinari sono pronunciate, tutte, in nome del Popolo italiano. E a quel popolo ogni decisione dovrà apparire, come sempre, legittima, equa, imparziale, priva di condizionamenti, presa nel solo interesse della verità. Si può lasciare l’incolpato a briglie sciolte, dandogli modo di spargere sale sulle ferite vive della corporazione e, così, di attentare alla carriera di teste coronate o alla memoria di ex satrapi. Un rischio effettivamente incombente e non solo ipotetico. Oppure si può arginarne la frenesia locutoria fino ai limiti della paralisi con il rischio di spingerlo al gesto eclatante di rinunciare a ogni testimonianza in nome di una verità che – si direbbe troppo facilmente – si vuole oscurare per tenebrose connivenze.

Nella solitudine della decisione ogni organo di giustizia è chiamato a operare scelte che siano rispettose della Costituzione secondo cui «la giustizia è amministrata in nome del popolo» (articolo 101) e di nessun altro interesse o soggetto. Nel farlo si dovrà evitare che vadano alla gogna persone che non possono difendersi o che testimoni siano costretti a deporre contra se (in spregio del divieto di porre domande autoincriminanti, art. 198, comma 2, c.p.p.), ma sarebbe tragico se la verità, ogni verità, bussasse invano al portone di palazzo dei Marescialli.