La bozza di riforma Cartabia sollecita riflessioni di non poco momento. Segna, innanzitutto, l’epocale passaggio dal processo parlato al processo documentale avallando le spinte giurisprudenziali degli ultimi anni. Ne sono prova il rafforzamento dei riti alternativi, con l’ulteriore incentivo per chi rinuncia a impugnare, e il complessivo depotenziamento dell’istruzione dibattimentale. Il tutto per far fronte alle endemiche carenze di organico degli uffici giudiziari e all’ipertrofia dei ruoli delle Corti di appello, ormai vicini al collasso.
La riforma incide su un passaggio cruciale della sequenza procedimentale: l’udienza preliminare, intendendo introdurre un rafforzamento valutativo incompatibile con la funzione propria della fase, che evidentemente non è “di merito”, a meno di non voler considerare il rinvio a giudizio una pre-condanna. Ma è chiaro che il potenziamento dell’udienza preliminare è direttamente proporzionale allo svilimento dell’appello, dimenticando che il pm è portatore dell’onere probatorio e l’imputato, all’opposto, della presunzione di non colpevolezza costituzionalmente riconosciuta.
Il punto focale della riforma, però, è la prescrizione, terreno del compromesso politico che ne ha consentito la definitiva approvazione in Consiglio dei ministri. Alla prescrizione sostanziale si affianca ora la prescrizione dell’azione, introducendosi una innovativa causa di improcedibilità. Si tratta di un ibrido non agevolmente decifrabile, in chiave sistematica e “culturale”, con implicazioni pratiche per nulla irrilevanti. In entrambi i casi il processo si estingue: per estinzione del reato in un caso, per improcedibilità nell’altro. Con la differenza che, stante il regime di obbligatorietà della azione penale, l’idea che un processo possa estinguersi, pur restando in vita il reato, costituisce bizzarria dagli indubbi riverberi sul fronte della incostituzionalità della disciplina. Peraltro, le condizioni di procedibilità sono legate alle modalità e alla tipologia del reato.
Nel caso di specie, l’improcedibilità sarebbe connessa ai tempi del processo con un effetto singolare: se il pm impugna la sentenza di assoluzione in primo grado e sopraggiunge l’improcedibilità per decorso dei tempi processuali, l’assoluzione si converte in improcedibilità. Si invera  una sorta di reformatio in peius per decorso del tempo, dunque, non essendovi margini per valutazioni di merito “più favorevoli”. Il vigente articolo 129 del codice di procedura penale, infatti, “impone” al giudice di pronunciare l’assoluzione in presenza di una causa estintiva del reato; in presenza di una causa di improcedibilità, invece, è preclusa ogni valutazione di merito. In definitiva, quando la risposta giudiziaria tarda oltre il limite ragionevole e non sopraggiunge la prescrizione del reato, si possono contemplare misure risarcitorie e riparatorie per l’imputato, sanzioni per i magistrati negligenti e vari altri rimedi. Si potrebbe persino stabilire che, se una sentenza di merito perviene dopo un certo termine, il processo può proseguire in grado di impugnazione solo nell’interesse dell’imputato (il che equivarrebbe a rendere inappellabile l’assoluzione e insuscettibile di riforma in peius la condanna).

Ma fino a quando non si modificherà l’articolo 112 della Costituzione, che sancisce l’obbligatorietà dell’azione penale, non è ammissibile che, perdurando la punibilità del reato, il processo evapori con una sentenza di non doversi procedere. Una simile definizione, a reato non estinto, in regime di azione penale obbligatoria, costituisce un’anomalia senza precedenti, un monstrum inclassificabile in termini dogmatici poiché refrattario a qualsivoglia inquadramento giuridico. Che il decorso del tempo possa estinguere il reato, segnando la fine del processo, è commendevole; che estingua direttamente il processo, lasciando in vita il reato, è abnorme. Quanto, infine, al novellato istituto della non rinnovabilità dell’istruzione dibattimentale in caso di mutamento della persona fisica del giudice, trattasi dell’epilogo naturale del percorso tracciato dalla sentenza delle Sezioni Unite Bajrami che, d’un sol colpo, ha cancellato i canoni irrinunciabili dell’oralità e dell’immediatezza.

Si dice che il sistema accusatorio non esiste più, che le “prove” si formano nella indagine per mano del pm, che il processo inquisitorio è all’ordine del giorno. Orbene, che il processo inquisitorio sia in agonia è vero, ma non costituisce buon approccio intellettuale rassegnarsi all’ordine esistente, accettando come inevitabile ciò che ci viene propinato. Il processo accusatorio, fondato sulla formazione della prova nel contraddittorio, è prossimo alla morte ma così procedendo con lui morirà anche il giusto processo sancito dalla Costituzione.
Questo significa che le riforme in materia processuale penale non possono mai essere il frutto di contingenze del momento, men che meno di compromessi al ribasso dettati da istanze di dialettica politica. I nostri riformatori non immaginino il processo “per gli altri”, ma operino pensando di essere loro i stessi i destinatari dell’accertamento penale. Questo approccio, forse, contribuirà a rendere più ragionevoli e meno improvvisati gli interventi sul processo penale, da sempre emblema della democraticità delle istituzioni di uno Stato che si dica di diritto.