Quando i costituenti, nel 1947, scrissero l’articolo 68 della Costituzione che obbligava i giudici che volevano sottoporre un parlamentare a procedimento penale a chiedere l’autorizzazione della Camera di appartenenza, individuarono un preciso punto di equilibrio tra politica e magistratura. Punto di equilibrio tra chi, ispirandosi a Robespierre, riteneva il potere legislativo per sua natura non eguale a nessun altro e perciò sottratto agli attacchi dell’inferiore ordine giudiziario, e chi, all’opposto, considerava i parlamentari alla stregua di comuni cittadini, come tali sempre e comunque processabili. Dimenticando i primi che in democrazia i poteri devono essere non solo separati ma in equilibrio, i secondi che si tratta non di privilegi del singolo parlamentare ma di prerogative volte primariamente a proteggere l’autonomia e l’indipendenza decisionale delle Camere rispetto alle indebite invadenze di altri poteri (Corte cost., sentenza 9/1970).

Questo equilibrio si è spezzato di fatto per colpa della politica che, abusando di tale prerogativa, ha trasformato l’immunità penale in impunità assoluta, tradendone l’originaria ispirazione garantista. Basti pensare che nella XI legislatura (1992-1994), cioè negli anni caldi di Tangentopoli, le ben 619 richieste di autorizzazione a procedere arrivate alla Camera dei deputati furono tutte respinte, fino a quando, il 15 novembre 1993, sotto l’incalzare dell’opinione pubblica, si decise di modificare il citato art. 68 della Costituzione. In base a tale riforma, oggi l’autorizzazione a procedere è richiesta non per sottoporre un parlamentare a procedimento penale ma solo per limitarne la libertà personale, domiciliare e di corrispondenza, tranne che venga colto in flagranza di reato o sia stato condannato con sentenza passata in giudicato, giacché in entrambi i casi evidentemente viene meno in radice il timore che il giudice sia mosso da intenti persecutori nei confronti del parlamentare (il cosiddetto fumus persecutionis).

A distanza di quasi trent’anni da quella riforma, i rapporti tra politica e magistratura sono nuovamente sbilanciati, stavolta a favore di quest’ultima. Sono, infatti, troppi e gravi i casi in cui i parlamentari (ma il discorso si potrebbe estendere a quanti ricoprono incarichi elettivi, come sindaci e presidenti di regione) vengono sottoposti dai pubblici ministeri per mesi e mesi a indagini, screditandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il parlamentare indagato si trova, infatti, in una situazione di oggettiva difficoltà nell’esercizio del proprio mandato. Anche volendo, non può adeguatamente difendersi dinanzi al pubblico ministero finché questi non decida di chiudere le indagini, subendo di contro tutte le conseguenze negative di un provvedimento come l’avviso di garanzia che, se certamente previsto a tutela del suo diritto di difesa, lo espone all’impopolarità del severo giudizio di condanna da parte di chi, quando si tratta di politici, lo ritiene preannuncio di colpevolezza. Anche quando, come spesso accade, le iniziative penali si concludono con un proscioglimento, il parlamentare ha comunque nel frattempo (ed è un “frattempo” che può durare anni) subìto un danno difficilmente rimediabile, non solo di natura personale, familiare ed economico (il costo della difesa) ma anche politico, avendo dovuto nel frattempo magari dimettersi dalla carica alla quale era stato eletto e rinunciare a una carriera politica ormai irrimediabilmente stroncata.

Per rimediare a tale situazione occorre agire su due versanti. Da un lato evitare che la divulgazione mediatica degli avvisi di garanzia sia accompagnata da dichiarazioni pubbliche di pubblici ministeri e agenti di polizia giudiziaria. Difatti, “fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche non devono presentare la persona come colpevole” (art. 4.1 direttiva (UE) 2016/343). Non si tratta d’impedire agli uffici inquirenti d’informare il pubblico sulle indagini svolte, ma occorre che lo facciano con tutta la discrezione e tutto il riserbo (ad esempio in modo impersonale) imposti dal rispetto della presunzione di non colpevolezza.

Dall’altro lato, per rimediare a una situazione che già incide sull’esercizio del proprio mandato, il parlamentare indagato e più in generale, la Camera di appartenenza, dovrebbero avere i mezzi per reagire a ciò che rispettivamente ritengano una persecuzione politica e una lesione delle proprie attribuzioni costituzionali, sia all’interno del processo (ad esempio ricorrendo subito ad un altro giudice, come avviene per le misure cautelari limitative della libertà personale) sia al di fuori di esso, presentando ricorso per conflitto di attribuzioni dinanzi alla Corte costituzionale. Sono soluzioni ovviamente su cui sarebbe opportuno aprire un dibattito all’interno di quella parte della classe politica e della magistratura che condividano l’assunto di partenza secondo cui la perdurante situazione di squilibrio nei loro reciproci rapporti richieda rimedi strutturali.