La settimana scorsa Il Foglio ha pubblicato un’intervista a Sabino Cassese in cui si sostiene che la numerosa presenza dei magistrati all’interno del ministero della Giustizia (sempre intorno ai 100) e il monopolio che essi hanno delle posizioni dirigenziali al suo interno, rappresenta una violazione del principio della divisione dei poteri, cioè di uno dei cardini di uno stato democratico. Questa denunzia è stata condivisa e rilanciata dal presidente dell’’Unione Camere Penali, Giandomenico Caiazza, su due quotidiani, Il Riformista e Il Giornale. Nel considerare questo fenomeno occorre innanzitutto ricordare che esso è collegato alla natura burocratica dell’assetto delle magistrature dell’Europa continentale per cui i dipendenti dello Stato centrale possono essere destinati a svolgere, nell’ambito dell’apparato statale, funzioni diverse da quelle per cui sono stati reclutati. Pertanto non solo in Italia ma anche in altri stati europei numerosi sono i magistrati che svolgono la loro attività nei vari ministeri della Giustizia (in Francia, Germania, Austria. Spagna e così via).

Detto questo, rimane da spiegare perché solo in Italia questo fenomeno viene denunziato ripetutamente come una violazione del principio della divisione dei poteri e negli altri Paesi no. Ciò dipende dal differente status del magistrato italiano che opera presso il nostro ministero della Giustizia rispetto a quello dei magistrati di altri paesi. Negli altri stati i ministri della Giustizia hanno, in varia misura, poteri decisori sullo status dei magistrati quantomeno per il periodo in cui sono alle loro dirette dipendenze (disciplina, valutazioni di professionalità, futura destinazione alle sedi giudiziarie alla fine del loro servizio presso il ministero). In Italia, invece, il ministro della Giustizia non ha alcuna influenza nel governare lo status dei magistrati che da lui formalmente dipendono.

A differenza dagli altri paesi europei, in Italia solo il Csm può assumere decisioni in materia disciplinare e di valutazione di professionalità dei magistrati anche per il periodo in cui formalmente dipendono dal ministro della Giustizia. Si è con ciò stesso sottratto al nostro ministro della Giustizia uno degli strumenti fondamentali dell’assetto gerarchico che fa capo ai ministri della Giustizia degli altri paesi democratici e su cui poggia in misura rilevante la capacità del ministro di formulare e perseguire autonomamente le iniziative da prendere e quindi di sollecitare ed ottenere dai suoi dipendenti comportamenti conformi alle politiche che vuole perseguire e per le quali formalmente assume la responsabilità politica. In un tale assetto è solo ovvio che i magistrati del ministero privilegino le aspettative del Csm (che coincidono sostanzialmente con quelle del loro sindacato) in tutte le attività di ricerca, elaborazione delle informazioni e proposte al ministro nella sua attività di iniziativa legislativa e operativa.

Tener presenti gli elementi sin qui forniti non è però ancora sufficiente ad apprezzare appieno il significato che assume l’autonomia tutta particolare della dirigenza del ministero della Giustizia rispetto al ministro. Tale autonomia ha trovato ulteriore nutrimento negli orientamenti, a lungo prevalenti e fortemente radicati nell’ambito della magistratura organizzata e delle sue rappresentanze in seno al Csm e che riguardano le ragioni con cui viene giustificata la presenza dei magistrati al ministero. Secondo questi orientamenti tale presenza sarebbe nella sostanza pienamente legittimata proprio dall’esigenza di tutelare l’indipendenza della magistratura dalle iniziative del ministro che potrebbero lederla. Questo orientamento non solo mi è stato ripetutamente ricordato nel corso degli anni in numerose interviste/conversazioni con magistrati, ma è confermata in vari documenti ufficiali e trova la più chiara esplicitazione in una relazione di vari anni fa della “Sottosezione dell’Anm presso il ministero della Giustizia”. Relazione inviata proprio al ministro della Giustizia e avente per oggetto “Proposte sulla riorganizzazione del ministero”.

In tale documento, si forniscono infatti “le ragioni che giustificano questa presenza” (dei magistrati al ministero), e a riguardo si dice: «Innanzitutto essa è volta ad attenuare i pericoli che la funzione servente nei confronti del funzionamento della giustizia – costituzionalmente attribuita al potere esecutivo – si trasformi, nel concreto esercizio, in un condizionamento del potere giudiziario e in una conseguente violazione del fondamentale principio dell’indipendenza della magistratura»…. E si prosegue dicendo: «È opportuno che gli ampi poteri riconosciuti al ministro dagli artt. 107 e 110 Costituzione e (come interpretati dalle sentenze n. 168/63 e 142/73 della Corte Costituzionale) nei confronti del funzionamento della giustizia siano esercitati a mezzo di magistrati, anziché di funzionari amministrativi. I primi, pur se posti fuori temporaneamente dall’ordine giudiziario, sono i soggetti istituzionalmente più in grado di conciliare l’autonomia e l’indipendenza del detto ordine con l’osservanza della linea politica-ministeriale».

Una delibera, che a dispetto di quanto possa apparire a un osservatore esterno, non aveva intenti rivendicativi ma si limitava a rappresentare l’assetto interno del ministero. Uno degli autori e firmatari di quella relazione inviata al Ministro era Ernesto Lupo, futuro presidente della Corte di Cassazione, da tutti sempre considerato persona di grande equilibrio, non certo portatore di orientamenti estremisti. Ed è significativo anche il fatto che il ministro dell’epoca nulla obiettò nel ricevere quella delibera dell’Anm, nonostante in essa si teorizzasse un ruolo davvero peculiare dei magistrati al ministero della Giustizia: dovrebbero addirittura svolgere un ruolo di resistenza, di contrasto ai voleri del ministro allorquando questi volesse, con le sue iniziative, ledere in qualche modo, a giudizio della magistratura organizzata o dei suoi rappresentanti in seno al Csm, l’indipendenza (o gli interessi corporativi) della magistratura stessa.

Nei ministeri della Giustizia di altri paesi di cui ho conoscenza diretta (come Francia, Germania, Austria, Olanda) i magistrati che vi lavorano sono tenuti alla riservatezza che, se violata, viene sanzionata. Da noi no. Se le iniziative del ministro, persino quelle a livello embrionale, toccano poteri della magistratura o aspetti dell’ordinamento che contrastano con gli orientamenti del sindacato della magistratura esse vengono subito comunicate, e gli esempi a riguardo sono numerosi, ad esponenti della magistratura organizzata e/o al Csm perché possano essere intraprese le eventuali azioni di contrasto. A riguardo è certamente emblematico anche un episodio verificatori nell’ottobre del 2001 che pone in evidenza come i magistrati del ministero della Giustizia si ritengano liberi, nei casi non certo frequenti di contrasti col ministro, di operare in opposizione al ministro stesso da cui formalmente dipendono e come siano appoggiati in tale loro opera dal Csm. In quell’occasione alcuni magistrati dell’Ufficio legislativo fecero pervenire a deputati dell’opposizione un parere che avevano di loro iniziativa predisposto per il ministro della Giustizia e di cui il ministro non aveva tenuto conto; un parere che era fortemente critico proprio nei confronti di un disegno di legge del ministro che in quel momento era in discussione al Senato.

È interessante notare che, a seguito di questo comportamento, i magistrati in questione hanno lasciato il ministero ma non hanno subito né procedimenti disciplinari né conseguenze negative sul piano della valutazione della professionalità da parte del Csm. Hanno invece acquisito titoli di benemerenza nella corporazione, tanto che uno di essi è stato quasi subito eletto dai colleghi, nel 2006, componente del Csm.
A rinforzare e rendere i comportamenti dei magistrati del ministero aderenti alle aspettative del Csm e del loro sindacato vi è poi anche il fatto che essi sanno, per esperienza, che possono essere gravemente penalizzati dal Csm se sospettati di “collaborazionismo” col ministro su questioni che pregiudicano gli interessi corporativi. Si tratta di casi poco frequenti anche perché i pochi che si sono verificati costituiscono un chiaro ed efficace monito a futura memoria per tutti gli altri. Uno dei casi più noti e clamorosi – certamente il più facile da richiamare – si è verificato allorquando Giovanni Falcone, nel periodo in cui era direttore generale degli Affari Penali del ministero, fu diffusamente sospettato e anche pubblicamente accusato da componenti del Csm e da esponenti dell’Anm di aver assecondato il ministro della Giustizia, Claudio Martelli, nella formulazione di un decreto legge in cui si prevedeva un effettivo e cogente coordinamento nazionale delle attività del pubblico ministero in materia di criminalità mafiosa, minando con ciò stesso l’indipendenza interna dei pm.

Durissima fu la reazione dell’Anm e del Csm ed il decreto fu radicalmente modificato. Si pose allora in dubbio pubblicamente persino la credibilità dell’indipendenza di Falcone quale magistrato e quindi, in sede di Csm, anche la sua attitudine e capacità a svolgere con indipendenza il ruolo di Procuratore nazionale antimafia. Tanto che la Commissione per gli incarichi direttivi del Csm – nonostante la fama, anche internazionale di Falcone in quel settore – non si espresse a suo favore. Le proposte della commissione non pervennero al vaglio del Plenum del Csm perché nel frattempo Falcone era stato assassinato dalla Mafia. Falcone non divenne quindi Procuratore nazionale antimafia ma dopo la sua uccisione fu subito riammesso nei favori dell’Anm e da allora celebrato come uno dei suoi martiri più illustri. Mi sembra che quanto detto sin qui, per quanto molto sommario, sia sufficiente a dare sostanza alle preoccupazioni espresse dal professor Cassese e dall’avvocato Caiazza in materia di divisione dei poteri. È tuttavia opportuno aggiungere due postille a questo articolo già troppo lungo.

Prima postilla. Vi sono state diverse iniziative legislative aventi per oggetto la presenza dei magistrati al ministero della Giustizia, tutte senza successo. Una limitata, temporanea eccezione è costituita dall’art. 19 del DPR del 4/8/2000 il quale stabiliva che i magistrati desinati al ministero non dovessero superare le 50 unità. A seguito del parere dato dal Csm (il 16/11/2000) quella limitazione fu abrogata. Ed è comprensibile. L’Anm ed il suo “braccio armato”, cioè il Csm, non potevano consentire che venisse, seppur di poco, messo in discussione l’articolato assetto di potere che fa capo alla magistratura.

Seconda postilla. L’Avvocato Caiazza nel suo articolo su questo giornale ci ha ricordato che la divisione dei poteri viene menomata gravemente anche dalla presenza dei magistrati in molti dei gangli decisionali del nostro Stato (posizioni di rilevo in altri ministeri e in Parlamento, presso la presidenza del Consiglio e della Repubblica, presso la corte Costituzionale e altre ancora). Le ricerche da noi condotte sulle attività extragiudiziarie dei magistrati certamente avvalorano la sua tesi. Forse ce ne occuperemo in un altro articolo. È tuttavia difficile da comprendere perché le Camere penali non abbiano inserito questo problema nel loro progetto di riforma costituzionale, visto che la divisione dei poteri è certamente questione di rilievo costituzionale.