Mando questo articolo proprio a voi, perché Il Riformista per ragioni di merito, immagino, è una delle testate che più si augura l’approvazione della mozione individuale (ovviamente quella garantista) al ministro Bonafede. In questo caso, peraltro, se si confermano i precedenti, il Senato farà votare separatamente le due mozioni, quella garantista e quella delle destre, mentre alla Camera prevale la prassi opposta di unificarle. Il punto però è il seguente: davvero quello strumento ha un senso? O non è di per sé quanto mai contestabile in termini di sistema e, per questo, andrebbe quanto prima soppresso dal nostro ordinamento, facendolo quindi nel frattempo fallire?

Già dovrebbe dire qualcosa il fatto che questo strumento non sia utilizzato in nessuna delle grandi democrazie parlamentari dove, di norma, il rapporto fiduciario intercorre solo con la persona che guida il Governo, con quello che in Italia è il presidente del Consiglio. Ovviamente contro questa regolarità, che dovrebbe comunque dirci qualcosa, si può obiettare che noi siamo in Italia e che lo strumento è stato legittimato dalla sentenza 7 del 1996 della Corte costituzionale. L’argomento però spiega solo perché lo strumento al momento possa essere utilizzato, ma non è per niente risolutivo sull’opportunità di usarlo davvero né su quella di mantenerlo nel nostro ordinamento. Al contrario la sentenza 7 del 1996 non appare per niente convincente.

Prima però di entrare nel merito di essa vale la pena di chiarire il contesto istituzionale e la storia. Il contesto nazionale è quello di Governi di coalizione che legittimamente si basano solo sulla fiducia parlamentare e che da vari anni non hanno più il plusvalore politico di derivare da un chiaro verdetto elettorale. In questo contesto l’esistenza di uno strumento di tal genere aggrava i problemi di coesione già con la sua presentazione, prima ancora del voto. Esso consente di cogliere fior da fiore, permette di mettere pressione sugli alleati che devono sopportare il ministro X, ma sopportare X fa parte del gioco della democrazia parlamentare di coalizione: io sopporto X, tu sopporti Y e – ovviamente – le loro politiche, o la loro torsione di politiche che dovrebbero essere comuni.

Ma perché allora esso fu introdotto nei Regolamenti parlamentari e nella prassi? Paradossalmente, allora, a metà degli anni 80, per rafforzare gli esecutivi in un contesto in cui si poteva ricorrere molto facilmente (fino al 1988) al voto segreto. Si trattava di evitare senza porre la fiducia (che all’epoca era considerato segnale di debolezza politicamente inopportuno e comunque spesso non accettato dagli alleati) che si votasse a scrutinio segreto in accordo con pezzi dell’opposizione contro questo o quel ministro di partito alleato, distruggendo così la coesione di maggioranza. Fu pertanto deciso che la mozione di sfiducia individuale andasse equiparata a quella di fiducia tout court: dunque da votarsi a scrutinio palese con chiamata nominale, depotenziandone gli effetti. Un’invenzione contingente occasionata da vicende dell’epoca (in particolare l’esigenza di difendere meglio i ministri Dc Donat Cattin e Falcucci) fu poi legittimata dal caso del ministro della Giustizia del governo Dini, Filippo Mancuso. Lo si voleva sostituire, ma il potere di revoca non esisteva e allora si utilizzò la sfiducia individuale come strumento succedaneo.

La Corte costituzionale si trovò a decidere sul ricorso del medesimo Mancuso che tendeva a inficiare in un colpo solo i comportamenti della maggioranza che lo aveva sfiduciato e dei presidenti del Consiglio e della Repubblica che lo avevano revocato. L’esito era quindi scontato a suo sfavore, ma questo non ci impedisce di leggere criticamente le motivazioni della sentenza. Essa parte da un primo assunto piuttosto debole: se il testo costituzionale non parla della mozione individuale la questione sarebbe stata da considerarsi impregiudicata. Il punto è che le norme costituzionali di razionalizzazione del rapporto Parlamento-Governo hanno senso solo se non sono aggirabili e tali devono appunto essere considerate. Altrimenti la loro forza prescrittiva sarebbe pressoché nulla. Ammettere che possano sorgere consuetudini costituzionali del genere rispetto al testo dell’articolo 94 che prevede solo la sfiducia all’intero Governo non significa ammettere un’integrazione, ma una via più facile e quindi obiettivamente alternativa. La sfiducia individuale non integra l’articolo 94, ne riduce la forza.

Superato così, non convincentemente, questo primo ostacolo, la Corte doveva poi dimostrare che oltre che impregiudicata la questione non fosse incoerente con l’interpretazione sistematica della Costituzione. Qui ha cercato di cavarsela cercando di confutare l’argomento forte in senso contrario della simmetria con la nascita del rapporto fiduciario che avviene nei confronti di tutto il Governo: perché sarebbe ammissibile sfiduciare un Ministro se il Governo nasce in Parlamento come un insieme, sulla base di un equilibrio complessivo? La Corte propone allora l’argomento del ministro dissenziente rispetto alla collegialità di governo. Così facendo, però, la sentenza coglie l’unico problema vero e la vera questione sottostante, ma individua uno strumento non congruo.

Se un ministro è dissenziente rispetto all’indirizzo del Governo ciò porta logicamente a proporre di introdurre in Costituzione la possibilità della revoca da parte del Presidente del Consiglio (meglio, della proposta di revoca se si vuole mantenere un parallelismo con la nomina ex articolo 92) e non la legittimità della sfiducia individuale. Con la revoca il presidente del Consiglio fa valere contro il dissenziente l’indirizzo complessivo; la sfiducia individuale, invece, può portare a maggioranze variabili a favore o contro ogni singolo ministro. Per contrastare questa obiezione la Corte allora sostiene che in ogni caso il presidente del Consiglio può spostare la questione sull’intero Governo, il che però equivale a dire che la mozione è legittima perché può essere assorbita: un argomento del tutto realistico, ma paradossale.

Alla fine, quindi, si ricavano le seguenti conclusioni. Prima: c’è un problema reale perché per sostituire un ministro dissenziente, come in quel caso, non si deve essere obbligati a una crisi di Governo; va quindi introdotta la proposta di revoca che è del tutto coerente con la forma parlamentare. La pressione va esercitata sul Presidente del Consiglio, che valuterà costi e benefici della scelta di mantenere il ministro o di revocarlo. Seconda: la mozione individuale ci porta invece su una strada sbagliata, su una deviazione assembleare della forma di governo che ne disincentiva la coesione. Terza: nel frattempo, prima di eliminarla, meglio farla comunque fallire perché la sua dannosità di sistema è comunque superiore a qualsiasi possibile beneficio del caso concreto.