Sono decenni che la politica “gioca” con il tema della lentezza della giustizia. Nessuna maggioranza e nessun governo hanno fatto eccezione, men che meno il governo in carica sotto l’egida della coppia Draghi-Cartabia. Anzi, il governo Conte e quello Draghi, seppur caratterizzati da guardasigilli di ben diversa caratura, hanno spinto pericolosamente in avanti il limite del “gioco”. Partiamo da un esempio. Due giorni fa, per l’ennesima volta, il tribunale di Nocera Inferiore è rimasto privo di energia elettrica e di acqua per circa tre ore. Conseguenza: una giornata di lavoro buttata. Si è trattato di un fatto non certo episodico ma di una circostanza si ripete ormai da anni e più volte all’anno. Il tribunale non è dotato di un gruppo di continuità elettrico e, di conseguenza, in tempi di processi e fascicoli totalmente telematici, il lavoro di magistrati e personale amministrativo si è paralizzato per l’intera giornata.
La cosa, tuttavia, sembra non interessare nessuno, tantomeno la politica che sogna di accorciare i tempi della giustizia attraverso la riforma e la modifica delle procedure. Non si contano più le riforme del processo penale e del processo civile, spesso autentici stravolgimenti, sempre parziali, che, al posto degli originari schemi processuali, hanno prodotto “patchwork” privi di qualsiasi organicità, coerenza e sistematicità. E ogni riforma è rimasta priva di risultati in relazione all’obiettivo del contenimento dei tempi. Il tutto, peraltro, aggravato dalla deriva sostanzialista della lettura giudiziaria delle norme, ormai in balìa di quel “legislatore abusivo e camuffato” che è diventato il giudice.
Con Conte e Draghi, poi, tale delirio riformatore, improduttivo di risultati sul piano della riduzione dei tempi della giustizia, ha toccato livelli allarmanti nella misura in cui il solo strumento voluto e cercato dai “riformatori” per ridurre i tempi sembra risolversi in una compressione sempre più evidente e massiccia dei diritti e della stessa funzione della difesa tecnica, come se il difensore e il suo portato di garanzia dei diritti fossero considerati solo dei fastidiosi orpelli, romantici e bizantini, magari un fastidioso intralcio per i giudici. La riforma Cartabia, ovviamente, non solo non fa eccezione (addirittura cercando di introdurre con legge ordinaria la presunzione di colpevolezza in luogo di quella costituzionale di non colpevolezza!) ma dimostra la persistente contiguità del governo al potere giudiziario che nessuno è seriamente intenzionato a scalfire.
Una certa vanità e superficialità politica non sono ovviamente estranee a tale situazione e a tali atteggiamenti, dando luogo ad una sorta di eterogenesi dei fini. Mi spiego meglio. Le “riforme” processuali, come rimedio alla lunghezza dei tempi, sono perseguite dalla politica e dai governi non solo perché essi si rifiutano di vedere quali siano i reali e più gravi problemi che determinano la lunghezza insostenibile dei giudizi ma anche perché fare modifiche processuali e quindi tecniche, per questa politichetta fatta da mezze figure, fa molto più “figo” che darsi da fare sul piano, oneroso ma meno appariscente, degli interventi strutturali.

Se si osserva il problema in modo onesto e pragmatico, infatti, i tempi lunghissimi della giustizia hanno altre cause che non gli schemi e le strutture processuali in vigore. E nessuna modifica processuale potrà mai sortire risultati se la politica non deciderà che è arrivato il momento di sciogliere i nodi strutturali. Primo tra tutti quello legato alle strutture in senso materiale: edilizia giudiziaria, rete e strumenti informatici, gestione delle sedi giudiziarie. Per un tribunale come quello di Nocera Inferiore la mancanza di un gruppo elettrico di continuità, in tempo di processo civile interamente informatizzato e telematico, ha una devastante ricaduta sulla gestione dei processi. Non migliore è la situazione del processo telematico i cui programmi ministeriali, già imperfetti e inadeguati ab origine, sono ormai soggetti a interruzioni a cadenza fissa settimanale per l’adeguamento dei sistemi alle effettive esigenze del servizio: ciò dimostra che la scelta del sistema operativo non fu la migliore possibile, senza dimenticare che la rete è lenta, inadeguata, soggetta a continue interruzioni.

Quella del personale giudiziario, poi, è la madre di tutte le questioni e la causa principale dell’inaccettabile durata dei processi. Ciò discende dalla correlazione con i carichi di lavoro, iniquamente distribuiti sul territorio nazionale in relazione alle unità di magistrati assegnate a ciascun ufficio. Per determinati tribunali, soprattutto al Sud, i tempi di definizione sono più lunghi che per altri: in alcuni uffici, a ciascun magistrato sono assegnate poche centinaia di fascicoli; in altri, invece, sono migliaia le cause che una singola toga è chiamata a decidere. Il problema è individuare nuovi metodi di distribuzione dei magistrati sul territorio, partendo dalla modifica delle piante organiche di ciascun tribunale. Stesso discorso per il personale amministrativo, per il quale servono nuove assunzioni.

Questi sono i veri nodi della durata dei processi. E se riforme devono essere fatte quanto al processo, alla sua struttura e all’ordine giudiziario, allora serve un personale politico capace, competente e illuminato, libero dai condizionamenti della corporazione giudiziaria e della sua ancella giornalistica, che innanzitutto applichi l’articolo 107 della Costituzione, con conseguente uscita del pm dall’ordine giudiziario, e azzeri il potere di interpretazione delle leggi da parte dei giudici. Tutto il resto sono pannicelli caldi, se non mezze soluzioni inutili e dannose. Ma escludo che ciò possa accadere sotto il “governo del gattopardo”.