Ha ragione Claudio Martelli: dobbiamo dire grazie a Mario Draghi e Marta Cartabia per aver posto fine all’era Conte-Bonafede e al “fine pena mai” con la legge che aboliva la prescrizione. Questo deve essere un punto fermo, si spera senza ritorno. Purtroppo questa conquista di principio, del resto coerente con l’articolo 111 della Costituzione sulla ragionevole durata del processo, ha comportato la necessità di mediazioni fin troppo gravose, in omaggio alla presenza nel governo di un’area più rozza che incompetente (o più incompetente che rozza, se è consentito un pizzico di ironia), guidata dall’ex premier Giuseppe Conte con il concorso esterno di Marco Travaglio.

Ma il risultato finale, con un gioco di specchi di mediazioni delle mediazioni, ha portato a un testo quanto meno ambiguo. Non alla vittoria dei giustizialisti del Fatto (cosa che non penso e che non ho scritto), ma piuttosto a quella cultura dei “salvo che”, che mi pare appartenere piuttosto all’area della parte più giacobina della sinistra. Ricordo bene, quando ero Presidente della Commissione giustizia della Camera, quante proposte di legge gli uomini del Pd (allora Pds) tentavano di annacquare con l’introduzione di emendamenti che, una volta fissata la regola, ributtavano la palla nel campo della discrezionalità del magistrato. Spesso facendo correre il rischio della vanificazione del principio stesso appena sancito. È un po’ quel che è capitato con la legge Cartabia di recente approvazione. Si fissano due anni che potrebbero diventare anche tre o anche sei, oppure uno che potrebbe diventare due o anche di più, e così via. C’è sempre un “salvo che”. E non è solo un problema di criminalità organizzata o di processi complessi. È proprio una cultura, quella della scarsa autonomia di questa parte della politica, della sua subalternità ai pubblici ministeri.

Claudio Martelli è stato un eccellente guardasigilli. Soprattutto perché è stato un ministro molto politico, in anni in cui la lotta alle mafie era sicuramente una priorità per ogni governo. Il suo impegno, con al fianco un Direttore degli affari generali come Giovanni Falcone, è stato totale. Come dovrebbe essere da parte di ogni esecutivo, senza delegare la “lotta” alla magistratura, il cui compito è quello di individuare i responsabili dei reati, piuttosto che di combattere i fenomeni sociali.

Purtroppo Martelli, che era ministro in un governo debolissimo, anche perché in presenza di una sferzante crisi economica, si fece prendere dall’emergenza, dopo l’uccisione di Falcone, e varò, con il ministro dell’interno Scotti, quel famoso decreto “antimafia” che segnò una pericolosa sterzata al di fuori dello Stato di diritto, con l’introduzione, tra l’altro, dell’articolo 41-bis dell’Ordinamento Penitenziario e dell’ergastolo ostativo. Penso che Claudio ricordi quante perplessità percorrevano il Parlamento rispetto alla conversione del decreto, sia tra i socialisti dell’area di governo che di tanti del Pds e di tutta la sinistra. Poi la mafia risolse il problema, per così dire, con l’assassinio di Paolo Borsellino. E l’emergenza prevalse sulle garanzie.

Nella bella intervista che Claudio ha rilasciato ieri a Umberto De Giovannangeli, a certo punto risento, pur se flebile, la eco di quella necessità emergenziale che non fa parte, lo so benissimo, della cultura del mondo socialista e dello stesso Martelli. È quando fa riferimento a trattare diversamente i processi contro la criminalità organizzata e il terrorismo. Qui bisognerebbe aprire un discorso su quello che è il collante che crea i maxiprocessi, cioè l’applicazione dei reati associativi. Ricordo con una certa nostalgia di aver partecipato, proprio in quei primi anni Novanta, a un congresso dell’Unione Camere Penali, in cui sparai la proposta che quella tipologia di reati fosse abrogata. I penalisti erano d’accordo, da sempre, ma l’idea non ha mai sfondato, anche se perfettamente coerente con il processo di tipo accusatorio. Che non prevede nulla di “maxi”, secondo il principio che “la responsabilità penale è personale”.

Ecco quel che mi preoccupa, caro Claudio. La distanza culturale, anche in questo governo, da una vera laicità del processo, lontano dalle scorie che dai tempi antichi hanno travasato nel diritto processuale romano (che era di tipo accusatorio) quello ecclesiastico e canonico, con tutto il loro fardello dei peccati da sovrapporre ai reati. Da questo punto di vista credo che Martelli e io siamo più vicini tra noi di quanto lui lo sia al procuratore Gratteri. Che non è Falcone, sia chiaro, anche se vorrebbe esserlo. Non è più tempo di emergenza. Se erano pericolose le leggi speciali allora, a maggior ragione oggi sarebbe bene che i principi restassero tali, senza essere inquinati dai “salvo che”.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.