Dalla Russia con terrore, potremmo parafrasare Ian Fleming. Eppure è dalla stessa Russia che può venire il rimedio. Se davvero Putin ha scatenato questa guerra insensata, al di là di calcoli imperialistici o di pretestuose ragioni geopolitiche, per paura di un contagio democratico della vicina Ucraina, ci si potrebbe chiedere se questo contagio – che non significa adesione supina ai modelli consumistici ma invenzione di un proprio modo di essere moderni – sia realisticamente possibile. Nessuno di noi può dirlo con certezza, e certamente l’universo russo resta in buona parte impenetrabile, nonostante innumerevoli reportage giornalistici, però vorrei provare a riflettere su un aspetto della questione.

Sono stato a Mosca, prima del Covid, tre volte in due anni per un premio letterario italo-russo e per alcune conferenze. Non ho la pretesa di aver capito alcunché di fondamentale in poche settimane, però mi hanno colpito due cose: fascino della grandiosità e centralità (anacronistica) della letteratura. Anzitutto una certa simmetria, anche architettonica, con gli Stati Uniti. Pathos della grandezza ed esibizione di potenza. Le Sette Sorelle, i sette grattacieli moscoviti degli anni ’40 e ‘50 fatti costruire da Stalin (università – l’edificio più alto in Europa fino al 1990! -, hotel, edifici residenziali, torri ministeriali…), ed espressione del classicismo socialista, sono il calco esatto dei grattacieli goticheggianti di New York, rivisti dal barocco estenuato di Elisabetta, figlia di Pietro il Grande. Mentre i nuovi grattacieli svettanti – i più alti in Europa! – della city affaristica evocano Shanghai. Mosca e New York sono due metropoli malate di narcisismo e megalomania. A New York la modernità, pur di audace verticalità, è ovunque un po’ rattoppata, impura, a Mosca invece somiglia a un paesaggio urbano cristallino, asettico, quasi un plastico sigillato nel gelo purissimo dei suoi inverni. Poi mi hanno colpito le tante case dedicate agli scrittori, veri e propri monumenti, oggetto di devoti pellegrinaggi.

A Roma nessuno sa in quali case abitò Belli, ma a Mosca le case di Gogol, di Puskin, di Cechov, di Bulgakov e perfino del grande Herzen, intellettuale libertario amato da Isaiah Berlin, sono appunto luoghi ufficiali e meta di visite (a San Pietroburgo c’è perfino Casa Raskolnikov, dedicata al protagonista di Delitto e castigo, oltre a Casa Achmatova, etc. ).. Nonostante tutto la Russia non ha smesso di celebrare la letteratura, sua vera religione laica. Perfino Stalin, che mandò a morte scrittori e poeti, un poco doveva subirla, ne era intimidito: celebre la telefonata – rievocata da Sciascia – in cui Stalin chiede a Pasternak perché lo avesse chiamato, e quando lo scrittore gli dice che lo ha fatto per parlare di vita e di morte, pare che Stalin spaventato abbassò la cornetta (sul rapporto sempre irrisolto, antagonistico, tra potere e intellettuali, si veda il prezioso La grande Russia portatile di Paolo Nori Salani 2018).

Nei Fratelli Karamazov, insuperato romanzo “filosofico” innervato da una riflessione sulla dialettica sempre inconclusa di bene e male, incontriamo verso la fine un dialogo tra il demoniaco Dmitrij (Mìtja), “mandante” dell’omicidio di suo padre (poi condannato) e il fratello minore, il caro e puro Alésa, in veste da novizio. «“Di che cosa parli, Mìtja?”, “Delle idee, delle idee, ecco di che! Dell’etica. Che cos’è l’etica?”. “L’etica?” – si stupì Alèsa. – “Sì, è una scienza, ma quale?” – “Sì, c’è una scienza di questo genere…ma…confesso, non ti so spiegare che scienza sia”». Alèsa sa bene che se l’etica è ridotta a “scienza”, a una disciplina accademica, a una sezione della filosofia, si svuota del tutto (in ciò probabilmente troviamo una polemica dello scrittore russo nei confronti della filosofia tedesca). Crede solo in un’etica vissuta, fatta dell’amore per gli altri (non aliena da uno slancio mistico), di una fiducia incondizionata verso il genere umano (fiducia che, a sua volta, genera sempre altra fiducia: è un giovane amato da tutti). Il dialogo tra Dmitrij e Alèsa, che finisce con la celebre frase «Se Dio non esiste è tutto permesso», è comunque presente nell’immaginario culturale dei russi – come il resto della loro letteratura, che nell’800 è stata probabilmente la più grande in Europa -, negli interrogativi e nei dilemmi su cui imparano a ragionare sui banchi scolastici.

Ora, presumibilmente un ventenne moscovita di oggi non legge Dostoevskij o Tolstoj e nemmeno Turgenev, forse il più bravo di tutti, adorato da Woody Allen (ma chissà…), e perlopiù guarda in tv i Simpson e Breaking bad. Esattamente al contrario di quelle mitiche commesse dei grandi magazzini Gum sulla piazza Rossa, che negli anni ‘60, secondo una attendibile testimonianza di Alberto Ronchey (il quale la riportava, incautamente, in una deplorazione del triste livellamento di quel popolo!), leggevano Guerra e pace alla cassa. Ma una tradizione culturale così ricca vive anche nel quotidiano, nel senso comune, negli atti e nei comportamenti delle persone. Credo (o voglio credere) che quella letteratura – benché celebrata in modo enfatico e spesso ipocrita – non possa smettere di parlare al suo popolo.