L’impressione che tutti abbiamo da parecchi decenni e che la Russia ma anche l’ultimo periodo dell’Unione Sovietica, non produca più nulla sul piano culturale, sia artistico che scientifico. Naturalmente non è esattamente così perché specialmente gli scienziati e in particolare i fisici sono piuttosto curati da un sistema che si fonda da una parte su armamenti pesanti e dall’altra sulla spremitura delle risorse energetiche naturali come il gas e il petrolio. Ma, se ci fate caso, capita rarissimamente di vedere un bel film russo, ascoltare musica moderna russa, leggere un romanzo che sia anche un successo editoriale, non emergono più pittori benché ce ne siano centinaia di migliaia, l’architettura sembra decadente oppure importata dall’occidente tecnologico.

Naturalmente tutto ciò fa parte di una impressione che si è confermata anche quando l’Unione Sovietica è collassata e al suo posto è rimasta una grande Russia che rivuole a tutti i costi vedi mettere insieme l’impero. Se ricordiamo bene, l’ultimo grande romanzo russo e stato Il dottor Zivago, fatto uscire clandestinamente hai tempi bui di Leonid Breznev… no, non riusciamo a ricordare nulla di nuovo ed importante più tardi. Che cosa ne è stato dunque di un Paese che ha dato nomi più che eccellenti alla cultura europea e mondiale come Cechov, Dostoevskij, Puskin, Tolstoj, Sholokhov, Turgenev, Bulgakov, Lermontov e Solzenicyn? Impossibile saperlo. La sensazione è che dopo la distruzione della borghesia avvenuta sotto Lenin e Stalin, morti anche gli ultimi epigoni del dissenso, nella Russia di Vladimir Putin non ci sia granché. Certo, milioni di esseri umani che tirano la carretta cercano di ottenere delle licenze commerciali dal governo con cui vivere decentemente talvolta anche sfarzosamente, ma lo spirito dell’arte sembra entrato in letargo. Ricordiamo con incartapecorita nostalgia i pittori allucinati sulla via Arbat nell’ultima fase del governo Gorbaciov.

Ma con tutto il dolore e il rispetto ci viene da dire che la Russia europea sia estinta oppure viva nelle nuove catacombe di un regime che ha occhi e manette su tutti, arresta chi protesta contro l’invasione dell’Ucraina, impone dei social media controllabili dal potere. Giusto l’altro ieri sono state chiuse due delle ultime catene televisive indipendenti. Anche i blog hanno vita grama e se il Cremlino ordina che non si debbano mai usare parole come guerra, invasione, uccisioni di civili, quegli ordini diventano a livello più basso il limite dell’espressione giornalistica e culturale. Non circolano più nemmeno opere di scrittori dissidenti, costretti nell’era sovietica a pubblicare all’estero i loro Samizdat che all’interno delle grandi città passavano di mano in mano. Se quella dell’era Breznev e fino alle aperture di Michail Gorbaciov, meritò il nome di “Stagnazione”, l’epoca più che ventennale di Putin potrebbe essere definita come l’età del disprezzo.

È evidente che l’ideologia putiniana, è andata involvendosi in una progressione di esaltazioni nazionaliste con continui richiami alla Grande Russia (che sia poi quella di Pietro il Grande o di Stalin poco importa), compensate da una ideologia che si potrebbe definire dei nuovi ricchi. Si tratta sempre di quei personaggi che si impossessarono – nella prima fase della crisi sovietica – del tesoro russo e di quello del Pcus, e che poi hanno sorretto in forme diverse sia Eltsin che Putin, il quale fu scelto dall’ultimo leader sovietico. Ma gli oligarchi ormai non contano molto, salvo la ristretta cerchia che fiancheggia il presidente e capo assoluto, e questi oligarchi si sono visti strappare di mano uno dopo l’altro i business della televisione, dei social, della comunicazione e persino dell’intrattenimento, perché tutti i veicoli espressivi sono stati chiamati a tener conto del gradimento del governo e del suo capo onnipotente. È un dato di fatto che le famiglie dei giovani soldati mandati a combattere in Ucraina contro la popolazione, ignorassero questa realtà e credevano che i loro figli stessero solo partecipando ad una grande esercitazione militare.

Siamo così arrivati all’uso dei sistemi di comunicazione anche culturale consentiti o vietati soltanto in base alla funzione di appoggio o di ostilità nei confronti del governo che non sponsorizza neppure una propria forma di cultura o di arte amica, per quanto ideologica come avveniva con il realismo socialista, ma tendenzialmente mostra pura e semplice antipatia per ogni dimostrazione di indipendenza, dopo aver creato un dizionario delle parole all’indice e dei fati storici da tenere sotto tutela, come il negato periodo di collaborazione fra Germania e Urss durante il primo anno e mezzo di guerra. Tacete, arricchitevi, non date fastidio e obbedite: queste sembrano essere le parole d’ordine di una autocrazia disinteressata all’egemonia cultura e che si limita a scoraggiare, solo nei casi estremi sopprimere, tutto ciò che rappresenti un elemento di semplice fastidio per un governo. E il risultato è quello che abbiamo sotto gli occhi: non solo non rinascono Gogol e Tolstoj, ma il pianeta culturale russo, una volta splendido e clamorosamente produttivo.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.