Che l’Italia fosse un target per l’Ambasciata russa è un dato pubblico. Artem Kalabukhov, nel board della diplomazia putiniana a Roma, lo scriveva chiaramente in rete. Il 13 novembre 2016 – in piena campagna referendaria – ritwitta un post, una lista di obiettivi che il suo Paese sta raggiungendo e a ogni obiettivo raggiunto c’è una spunta. Brexit, Usa, Bulgaria, Moldova sono i target raggiunti. A cui segue la lista di quelli da raggiungere: Olanda, Italia, Francia, Germania. Tutto sotto una foto di Vladimir Putin che mangia popcorn come fosse davanti al suo spettacolo preferito. Kalabukhov, ex dirigente dell’ambasciata moscovita, amava frequentare salotti e università italiane dove esporta la teoria degli “alternative facts”, la distopica visione del mondo secondo Mosca.

Era in prima fila quando Beppe Grillo, accompagnato da Alessandro Di Battista, varcò i cancelli di Villa Abamelek, storica residenza dell’ambasciatore russo, in uno degli scorci più belli di Via Aurelia Antica. Sul numero degli incontri e sulle date non c’è alcuna certezza: in Italia succede anche questo. Che avvenimenti politici di carattere internazionale vengano clamorosamente “bucati”. La cronaca odierna, l’arresto di un ufficiale italiano e l’espulsione di due diplomatici russi che lo hanno corrotto, ha il pregio di svelare una certezza: l’Italia il suo “Russia-gate” lo ha davanti gli occhi da anni. E da anni lo ha occultato riducendolo nel migliore dei casi “a colore”. Così fu derubricato l’incontro in ambasciata dallo stesso Grillo, “mi vennero a prendere con una macchina scassata Dibba e Di Stefano… (attuale sotto-segretario agli Esteri) “. Insomma, una gita.

Di certo è stato “colore” il fidanzamento di Di Battista con una ragazza moldava che lo portò a frequentare l’Istituto di Cultura e Lingua Russa nel quartiere Monti e da qui a un primo contatto con l’ambasciata di Mosca. Era il 2015 e Ana, questo il nome della ragazza, lo introdusse in quel mondo e divenne la sua consigliera più fidata. Ma nella primavera del 2016 improvvisamente tutto cambiò: prima arrivò l’annuncio di lui di future nozze e poche settimane dopo la ragazza venne «licenziata» da compagna e da consigliera: sarebbe entrata in conflitto con lo staff milanese e la segreteria di Di Battista, recitavano gli spin finiti nel rullo delle agenzie.

Fino ad allora Dibba e Di Stefano avevano in mano il dossier russo. La giravolta del Movimento sulla Russia di Putin era stata radicale, veloce e priva di spiegazioni. E i due deputati l’avevano incarnata perfettamente, fino a portare Di Stefano al congresso di Russia Unita. Per Grillo e Casaleggio Putin era un assassino e la Russia una dittatura. Poi il Genovese si cambiò d’abito nel marzo 2014 e Putin divenne un faro a cui guardare. Il Movimento chiese la fine delle sanzioni, derubricò l’invasione ucraina a “una guerra scatenata dalla Nato” fino al 2015 quando Grillo rilasciò un’intervista a pagamento a Russia Today, l’asset della propaganda russa noto tra le altre cose per aver ricompensato il generale Usa Michael Flynn poi finito agli arresti. I viaggi sauditi di Renzi erano al di là da venire, nessuno si pose il problema che un leader politico ricevesse soldi da un network di Putin. Di certo è che la propaganda russa veniva irradiata in Italia attraverso i canali ufficiali del Movimento, il blog di Grillo, e da Tze Tze un sito gestito da Casaleggio associati.

La Rete nella storia del Russia-gate italiano ha un ruolo fondamentale. Pietro Dettori, social media manager prima della Casaleggio e oggi nella segreteria del ministro Luigi Di Maio è tra i fan del leader russo: “Con Putin non si scherza – ritwitta dal sito “Silenzi e falsità” gestito dal fratello – Mosca ha annunciato il progetto per un nuovo missile nucleare che si chiama RS 28, o Satan 2, in grado di colpire e ridurre in cenere un territorio della dimensione del Texas o della Francia. “Putin è uno che tira, il suo nome produce traffico sulla rete”, erano le istruzioni che arrivavano all’ufficio comunicazione del Movimento. Alla battaglia mediatica, come quella del diplomatico Kalabukhov, si è sommata quella politica. Negli stessi giorni di quel tweet così poco diplomatico Di Battista, era impegnato sul fronte referendario per la riforma costituzionale. C’è chi, in quei giorni, lo ricorda negli uffici del gruppo parlamentare profferire una frase che se fosse confermata, e fino ad oggi Dibba non l’ha mai smentita, spiegherebbe molto.

“ Che ne dite di farci dare una mano per la campagna sul referendum dall’ambasciatore russo? Con tutto quello che stiamo facendo per loro…”. Sbruffonerie o i vertici dell’ambasciata erano davvero così intimi con il deputato? Certo è che di cose gradite a Mosca ne avevano davvero fatte tante. Allora tutto passò sotto silenzio: tutto era derubricato a gossip, colore. Oggi di fronte all’espulsione di due diplomatici russi assumono ben altro significato le accuse di “maccartismo” che Grillo e Di Battista rilanciano nei confronti dell’amministrazione Usa. “Invece di costruire nuove fondamenta per una più ampia cooperazione internazionale Biden-Blinken identificano nemici – con toni bellicosi nei confronti di Russia e Cina – attribuendo responsabilità sempre e solo agli “altri”. Parola del Garante che un giorno diede del criminale a Putin e poi cambiò idea.