«La spesa della Nato può salire al 3%». L’ha detto il segretario generale dell’Alleanza atlantica, due giorni fa, in preparazione della Conferenza sulla Sicurezza che si apre oggi a Monaco di Baviera. Sono parole da interpretare come il tentativo di rispondere al decisionismo di Trump. E, a dispetto di quelle di Ursula von der Leyen sui dazi, oppure della responsabile della diplomazia Ue, Kaja Kallas, sulla guerra russo-ucraina, appaiono come le uniche ad aver un background di concretezza. Finora si è detto che il male endemico europeo è quello di non saper dove andare a recuperare i miliardi necessari per riuscire a competere contro Usa e Cina. Praticamente su tutto.

Il comparto Difesa non è da meno. Anzi, oltre a essere difficile il recupero delle risorse – tante e in tempi rapidi se davvero gli Usa vogliono defilarsi dal proteggerci – è complesso capire come poi gestirle. Perché, ammesso che si trovi una quadra tra le spese militari e lo Stato sociale dei singoli Stati Ue – l’epoca del “burro e cannoni” è finito da un pezzo – c’è poi il discorso dell’elettorato, che non è detto che sia favorevole a simili investimenti. Per esempio, in un’Italia che ripudia la guerra – giustamente – politiche pubbliche travisabili come “corsa agli armamenti” sono esposte alle più urlate speculazioni ideologiche.

L’industria della Difesa è poi aggravata dalla sua strutturale lentezza operativa. «I grandi gruppi industriali militari faticano ad adattarsi allo scenario odierno», spiega Giuseppe Lacerenza, partner del fondo DefenceTech di Keen Venture Partners, attore olandese del venture capital che investe in startup e scaleup a livello europeo. «La filiera è organizzata su piani industriali di lungo periodo», aggiunge. Progettazione, appalti, assegnazioni pubbliche. Questa rigidità rende il settore ingolfato e quindi difficilmente attrattivo per capitali di rischio che premiano scalabilità e velocità di esecuzione.

Ma c’è una parte d’Europa che ha una maggiore percezione dell’urgenza di proteggersi. E che sicurezza non vuol dire soltanto produrre carri armati, ma ancor più dotarsi di un apparato di sicurezza e deterrenza caratterizzato dall’adozione di tecnologie dual use. Militari, ma anche civili. L’opinione pubblica del Nord Europa ha iniziato a evolversi. Attori istituzionali, come i fondi pensione, si stanno avvicinando progressivamente agli investimenti nel settore. Tra Olanda, Finlandia ed Estonia, per esempio, stanno cominciando a nascere fondi di investimento specializzati ad hoc. Vuoi per ragioni geografiche (la Russia è alle porte dell’Europea dell’Est); vuoi per propensioni culturali (gli olandesi da sempre sono alla ricerca di nuove frontiere).

A oggi, però, in Europa non esistono ancora venture capital per sostenere startup e scaleup del settore. Tra le iniziative in qualche misura comparabili ci sono l’acceleratore di startup promosso dalla Nato, denominato Diana, e Brave 1, la piattaforma creata dal governo ucraino per rendere più semplice lo scouting e l’adozione di soluzioni tecnologiche da parte delle proprie forze armate. Con una dotazione di partenza di 125 milioni di euro, il fondo DefenceTech di Keen Venture Partners intende investire in settori che spaziano dall’Intelligenza Artificiale ai sistemi a guida autonoma, fino all’analisi dei dati, alla protezione delle infrastrutture critiche, alla resilienza energetica e alla cybersecurity. Tecnologie duali, appunto, che garantiscono la partecipazione «di capitali sani», dice Lacerenza. «E con sani intendo dire che premiano la sostenibilità del business e dell’impresa in termini di mercato, e di conseguenza orientati all’efficientamento dei costi e allo sviluppo rapido di prodotti realmente utili per il cliente finale».

Il dual use fa sì che non si abbia a che fare con l’esclusivo e canonico investimento in un piano militare. «È un discorso di deterrenza», spiega il manager italiano trapiantato ad Amsterdam ormai da 8 anni. «Così come la nostra società vuole vivere in mondo più verde e di pari opportunità, pretende anche maggiore sicurezza. La Difesa oggi deve fornire una risposta anche a questa domanda. Con tutte le tecnologie di cui può disporre».

Ecco perché la questione è europea. Il processo di cambiamento non può realizzarsi per volontà di governi e Stati nazionali che ragionano a compartimenti stagni. Oggi gli Usa investono circa 900 miliardi di dollari in Difesa. L’Europa si ferma a poco più di 200. Cifre di questa portata richiedono interventi di carattere continentale. È quello che ha detto Draghi. Rutte sembra averlo inteso. Se questo non bastasse, è sufficiente riflettere sulle intenzioni di Trump. È lui che ci sta imponendo una trasformazione.