«Se la storia ci ha mostrato qualcosa è che non possiamo arrestare e incarcerare i sistematici problemi sociali che affliggono le nostre società». È il principio che guida l’azione di un ex-vice procuratore statunitense che aggiunge: «Quando parliamo di riforma della giustizia penale, come società, ci concentriamo su tre cose: ci lamentiamo, twittiamo e manifestiamo su polizia, sanità e carcere. Raramente, per non dire mai, parliamo dei Procuratori». È nero, di origine colombiana, adottato e cresciuto in una famiglia di bianchi, rasta, avvocato, per otto anni vice procuratore distrettuale della contea di Suffolk, nel Massachusetts (800.000 abitanti circa). Si chiama Adam J. Foss e con la sua organizzazione “Prosecutor Impact” si batte perché nessuna persona sia destinata a consumarsi in una cella di prigione. L’obiettivo è un approccio più sensibile ed equo alle questioni sociali, sconfiggendo il populismo giudiziario che produce discariche umane chiamate carceri da un lato, recidiva, diseguaglianze, insicurezza dall’altro.

Le riforme che propone mirano a modificare un sistema ordinamentale che vede nella sanzione penale e, in particolare, nella reclusione in carcere la soluzione di ogni patologia sociale; che non mira a risolvere i conflitti ma a nasconderli con misure meramente repressive ed eliminative. Propone un’erosione graduale delle competenze del sistema giudiziario attraverso la predisposizione e l’incremento di misure di aiuto concreto nell’ambito dell’istruzione, della sanità, della formazione e della responsabilizzazione delle forze di polizia e, non ultimo, attraverso una modifica sostanziale del ruolo dei Procuratori. Parole e concetti che evocano il sentire di Marco Pannella o di Rita Bernardini sulla malagiustizia, sugli istituti di pena afflitti da un sovraffollamento strutturale troppo spesso determinato dall’abuso degli strumenti custodiali anche per reati di minima offensività, sulla necessità che i magistrati visitino le carceri affinché si rendano conto del peso delle loro decisioni esasperatamente punitive che incidono drammaticamente sui percorsi di vita dei reclusi comportando una ricaduta inevitabile nel crimine e incrementando, in Paesi come l’Italia, il tasso di recidiva fino al 60%.

L’approccio “law and order” (ordine e disciplina) ha, ormai da tempo, dimostrato i suoi limiti. L’uso e l’abuso del diritto penale non mitigano ma incrementano i conflitti e le disarmonie sociali. In Italia i numeri crescenti della popolazione detenuta in spazi sempre più inadeguati, a fronte di una lentezza endemica dei processi, comportano una situazione di allarme crescente tanto più in tempo di pandemia. La strutturale impossibilità di mantenere il distanziamento e condizioni igieniche accettabili in spazi infimi e promiscui di coabitazione coatta rende i luoghi di privazione della libertà bombe epidemiologiche pronte ad esplodere a danno di tutta la comunità penitenziaria. Per tale ragione dal 10 novembre Rita Bernardini è in sciopero della fame, per chiedere al governo e al parlamento misure deflattive urgenti ed efficaci a protezione di un mondo, quello recluso, in grave pericolo. In Italia, come negli Stati Uniti, si è negli anni sempre più esasperato il ricorso alla sanzione penale e si è assistito a una proliferazione inconcludente di fattispecie di reato espressione della medesima tendenza ad alimentare il disagio sociale con la repressione.

Tuona l’allarme di Marco Pannella che, nel luglio 2015, paventava una società che, animata dal miraggio dell’ordine costituito, indulgesse a vestire di legalità azioni illegittime perché, nella sostanza, ingiuste e illiberali: “forme di legalità che sono nemiche delle visioni liberali, delle visioni laiche nelle quali la libertà di pensiero viene sempre temuta piuttosto che coltivata”. Come Pannella, anche Foss è convinto che l’incarcerazione di massa e il conseguente sovraffollamento siano un epifenomeno. Con l’elezione di Joe Biden alla Presidenza degli Stati Uniti, le riforme che propongono procuratori progressisti come Foss non sono più irrealizzabili. Andando oltre l’asfissiante pseudo-scontro tra “fascisti” da una parte e “politicamente corretti” dall’altra, nei suoi interventi pubblici, Foss va alla radice del problema snocciolando numeri impressionanti, a partire da quelli dell’incarcerazione di massa: 2,3 milioni di persone negli Stati Uniti sono in prigione, rendendo gli Stati Uniti il Paese che più incarcera al mondo. 50 anni fa erano 250.000 circa. Se gli americani costituiscono il 5% della popolazione mondiale, quelli dietro le sbarre sono il 25% della popolazione carceraria mondiale.

Altri 7 milioni sono in libertà vigilata o in condizionale e 12 milioni hanno precedenti penali. Si tratta di un’industria, quella carceraria, che divora annualmente 80 miliardi di dollari. Un uomo nero su tre nato oggi negli Stati Uniti trascorrerà del tempo in prigione. Una donna nera su tre ha un parente già in prigione. Ci sono più scuole con segregazione razziale oggi che nel 1954 quando, con una sentenza storica, la Corte Suprema stabilì unanimemente l’incostituzionalità della segregazione razziale dei bambini nelle scuole pubbliche. C’era più rappresentanza al Congresso per le persone di colore durante il periodo di ricostruzione dopo la guerra civile che adesso. Ci sono più persone sotto il controllo del sistema penitenziario oggi, che schiavi alla vigilia della guerra civile.

Altro dato agghiacciante riguarda i minori: ogni giorno, negli Stati Uniti quasi 60.000 minorenni vengono reclusi. Ogni anno vengono spesi 110.000 dollari per incarcerare un adolescente per un anno, con una probabilità del 60% di recidiva e di rientro nel sistema della giustizia penale. Su 800 bambini detenuti nel Massachusetts, il 75% di loro ha avuto una media di tre interazioni con il sistema di assistenza all’infanzia prima dei tre anni. E infine, tornando all’istruzione, i bambini da zero a sei anni di quartieri poveri, quando entrano in prima elementare, avranno avuto qualcuno che avrà letto loro in media 18 ore. Questa cifra sale a 2400 ore per i bambini di quartieri benestanti. Ciò significa che, in media, i bambini più poveri avranno ascoltato 30 milioni di parole in meno rispetto ai bambini più ricchi. Questo divario nell’alfabetizzazione determina un ritardo cognitivo che si rivelerà determinante.

L’instabilità economica e un condiviso senso di precarietà, aggravati dalla pandemia, hanno indotto governi incapaci di adottare misure di protezione sociale ad un ricorso sempre più frequente al diritto penale ed allo Stato di emergenza. È sempre più urgente investire in programmi alternativi all’incarcerazione e superare il vecchio approccio “ordine e disciplina”. Occorrono leggi democratiche tese alla tutela dei diritti umani. Il dilagare del Covid-19 ha dimostrato come la detenzione e le carceri siano un problema che non conosce confini. Salviamo le carceri, la giustizia dal diritto penale sostenendo Rita Bernardini nella richiesta di adozione di un provvedimento di amnistia e di riforme basate sulle pene alternative che diano dignità alla giustizia, alla comunità penitenziaria intera e che, come dice Foss, mettano fine “al modo in cui perseguiamo, incarceriamo, etichettiamo e screditiamo le persone”.

Maria Brucale, Matteo Angioli

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