Al grido “giù le mani dalla casa” e “basta cartelle fiscali”, Matteo Salvini inaugura la fase post voto amministrative. Come prima reazione ai risultati critici per le destre sovraniste e per le forze populiste, ai titoli di giornali che parlano di “disfatta” delle destre, nuova centralità per i moderati e lunga vita al governo Draghi, la Lega diserta il consiglio dei ministri e non firma la legge delega per la riforma fiscale. «C’è un problema di metodo – dice – perché non ci possono dare il testo un’ora prima del Cdm. E c’è anche un problema di contenuti perché c’è la riforma del catasto, che noi non vogliamo, ma non c’è la flat tax e neppure la rottamazione delle cartelle che invece avevano chiesto».

Chiuse le urne, aperta la partita ancora tutta da giocare dei ballottaggi per Roma e Torino ma l’andazzo in maggioranza non cambia. Ripicche, offese, ammuine, scenette che ripetono un canovaccio liso e, soprattutto, inconcludente. Come se nulla fosse successo. Come se i cittadini elettori – seppure solo la metà degli aventi diritto – non avessero mandato un messaggio chiaro: governate, andate avanti e tirate fuori il Paese dalla pandemia. E, adesso, anche dalle insidie dell’inflazione. Ben lontano dall’abbassare i toni e dimostrarsi collaborativo, ieri Matteo Salvini ha ordinato ai suoi ministri di non prendere parte al consiglio dei ministri, di non firmare la legge delega. Non solo: saputo, a fine mattinata, che il premier Draghi avrebbe tenuto una conferenza stampa intorno alle 16 subito dopo il Cdm, Salvini ha lasciato Milano e ha convocato a sua volta una conferenza stampa. Alle 17, alla Camera, un orario e un luogo scelti apposta per “rispondere” al premier che a sua volta, qualche centinaio di metri più in là, spiegava la delega fiscale con accanto il ministro Franco.

«Non so perché la Lega abbia lasciato il tavolo del Consiglio dei ministri» ha spiegato il premier «si tratta certamente di un atto serio le cui implicazioni sarà Salvini stesso a spiegare». In altri tempi, anche perché è la seconda volta che accade in poco tempo (l’altra volta la diserzione dei ministri leghisti riguardò una misura sulle chiusure), sarebbe stata subito formalizzata una crisi di governo, sarebbe partita una verifica di maggioranza. «Ma questi sono tempi diversi, una maggioranza diversa» ha replicato Draghi lasciando palazzo Chigi per impegni europei. «Il governo c’è finché governa, non sta qui per forza a logorarsi» è uno dei capisaldi del Draghi-pensiero. Circa il metodo e il merito della delega fiscale, premier e ministro Franco hanno spiegato nell’ordine che: la legge delega è «un contenitore generale che dà le linee guida» su cui poi il Parlamento avrà tempo e modo di correggere ed esprimersi; i dieci articoli della delega si ispirano in tutto e per tutto «all’importante lavoro di ricognizione e sintesi fatto dalla Commissione Finanze» che è stato approvato da tutte le forze di maggioranza, Lega compresa.

La revisione del catasto non è presente nella relazione della Commissione ma, ha sottolineato Draghi, si tratta di un’operazione trasparenza per far emergere immobili e terreni fantasma. Serviranno almeno cinque anni per completare la revisione («entro il 2026») e «non ci saranno modifiche all’imposizione fiscale su case e terreni». Eccolo qui il compromesso con i partiti di centrodestra: facciamo la riforma perché è rinviata da troppi anni, la chiede la Commissione Ue ed è uno dei pilastri del Pnrr ma di sicuro almeno fino al 2026 non ci saranno aumenti. Per nessuno. Più di così, francamente, è difficile chiedere. «Vince la linea di Forza Italia, non ci sarà alcun aumento delle tasse sulla casa» può esultare Brunetta. Eppure i ministri leghisti hanno lasciato il tavolo. «In realtà – spiega una fonte di governo – hanno solo chiesto tempo per leggere bene il testo che ci è stato consegnato appena un’ora prima l’inizio della cabina di regia». L’economista della Lega, l’ex sottosegretario Massimo Garavaglia e ora ministro del Turismo, è un esperto della materia, conosce la portata di una legge delega in materia fiscale attesa da ben mezzo secolo e ne conosce i possibili rischi ad esempio nell’eccesso di genericità e nella mancanza di alcuni paletti.

Il problema è che una legittima richiesta di tempo si è trasformata nel solito teatrino della Lega a due facce, quella di lotta e quella di governo. Con Draghi che, stufo di rinviare questa riforma dalla fine di luglio, è andato avanti lo stesso. «Uno degli obiettivi della legge delega – ha sottolineato – è diminuire la tasse, anche semplificandole, perché siamo fuori linea rispetto ai paesi Ue (+2%) e Ocse (+5%)». Parole che dovrebbero essere miele per Salvini e il centrodestra. Dovrebbero avere molto più da lamentarsi il Pd e Leu che avevano chiesto patrimoniali e tassazioni speciali per i più ricchi. E invece: «Riforma positiva, non ci sono aumenti delle tasse» dicono le capigruppo del Pd Simona Malpezzi e Debora Serracchiani. In un comunicato definiscono “irresponsabile” Salvini che ha fatto il suo solito show. «Non firmiamo deleghe in bianco, c’è di mezzo il portafoglio e lo stipendio e la casa degli italiani, non chiniamo il capo» ha detto il segretario leghista. Fonti Lega assicurano che non c’è alcuna crisi di governo alle viste, meno che mai traumatiche uscite dalla maggioranza. «State tranquilli, non vi preoccupate, abbiamo solo chiesto un po’ di tempo per leggere. Vorrà dire che le correzioni saranno fatte dopo in Parlamento».

Parole che contengono la risposta che Draghi voleva: tanto rumore per nulla. Al netto di tempistiche nella condivisione dei documenti che dovranno essere riviste. Il punto è che il nervosismo di Salvini è la variabile con cui il governo Draghi dovrà continuare a fare i conti. Almeno fino a quando non sarà chiaro come il centrodestra di governo – Lega e Forza Italia – vorranno gestire i rapporti con Giorgia Meloni che oltre alla “vittoria” come prima lista del centrodestra chiede di andare subito al voto. È l’unica a farlo. Lega e Forza Italia si sono già smarcati. Le rivendicazioni di Salvini – «abbiamo 66 sindaci in più e ora vediamo cosa succede ai ballottaggi» – sono la spia di un leader in difficoltà. Ma, assicurano più fonti leghiste, «ben saldo al suo posto» e prossimamente molto concentrato su temi come lavoro, tasse e sicurezza al posto di aperture e green pass. Oltre ai risultati, Salvini deve anche preoccuparsi di uno spazio politico che si sta aprendo al centro, per lui necessario per diventare forza di governo ma che potrebbe presto essere occupato da Carlo Calenda. Il vero vincitore di queste amministrative – la sua lista è arrivata terza a Roma partendo dal nulla – ha spiegato dove e come intende portare avanti la sua esperienza politica. «Mi rivolgo a quell’area dei riformisti progressisti pragmatici che non so se sia al centro, a destra o a sinistra» ha detto ieri.

In quel 20 per cento il leader di Azione ha attirato «esattamente il voto che volevo attirare, anche a livello nazionale: liberal-democratici, popolari, socialdemocratici. Non credo che sia proprio centro, ma riformismo pragmatico. Che è un po’ quello che sta facendo Draghi al governo». Sembrano le parole di quel federatore dell’area riformista che potrebbe aggregare nel paese una maggioranza politica che avrebbe naturalmente, anche dopo il 2023, Mario Draghi come candidato premier. Chiaro il messaggio al Pd e a Letta: «Io credo che al netto di Roma sia arrivato il momento per il Pd di fare una scelta riformista e abbandonare i 5S al loro destino. Vale anche per coloro che davvero si richiamano ai valori dei popolari europei e che non vogliono morire sovranisti».

Così, dopo la variabile Salvini, le urne delle amministrative nella Capitale consegnano anche la variabile Calenda. Michetti e Gualtieri hanno già iniziato il corteggiamento. Ma non ci saranno apparentamenti né dichiarazioni di voto. Si annunciano scelte difficili per Letta e Salvini. Il segretario del Pd non sa come conciliare Calenda, Conte e quel che resta dei 5 Stelle. Il segretario della Lega deve decidere una volta per tutte se essere di lotta o di governo. Se inseguire Meloni o dar retta a Berlusconi.

Avatar photo

Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.