Nuovo provvedimento della Corte europea dei diritti dell’uomo. Si aprono spiragli, forse porte e portoni per Marcello Dell’Utri e i tanti che come lui sono stati condannati sulla base del reato che non c’è, il concorso esterno in associazione mafiosa. Quello inventato dalla giurisprudenza, ma che non ha mai conquistato la dignità di esistere nel codice penale come reato autonomo, invece che come cucitura arbitraria di due norme ben distinte tra loro, il concorso e l’associazione mafiosa.

Dopo Bruno Contrada, anche l’ex senatore democristiano di Palermo Vincenzo Inzerillo ha avuto il suo primo riconoscimento dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, che ha ritenuto ricevibile il ricorso presentato dal suo legale, l’avvocato Stefano Giordano, lo stesso che aveva già portato a casa non solo la sentenza Cedu su Contrada ma anche il suo risarcimento per ingiusta detenzione da parte della corte d’appello di Palermo. La decisione sull’ammissibilità del ricorso del senatore Inzerillo (cui seguirà una prevedibile sentenza favorevole) da parte della Cedu è particolarmente importante perché sconfessa una decisione discriminatoria assunta dalla corte di cassazione a sezioni riunite del 24 ottobre 2019, che considerava quello di Contrada non come sentenza-pilota, ma come (disdicevole) caso unico, non applicabile a nessun altro.

Nel respingere ogni altro ricorso, la cassazione italiana stabiliva un paradosso. E cioè che, se con la condanna di Contrada si era violato l’articolo 7 della Commissione europea dei diritti dell’uomo, ciò non riguardava tutte le altre condanne, anche se relative a fatti precedenti il 1994, cioè l’anno in cui la giurisprudenza creò dal nulla il reato che non c’è. In tutti gli altri casi non si era violato alcun principio, quindi erano state sentenze giuste. Un pezzetto per volta la Cedu sta pareggiando i conti, spezzando la discriminazione tra casi di serie A e casi di serie B.

Saranno in parecchi a vestire a lutto in questi giorni, oltre agli imbarazzati giudici che, nell’affermare che ogni condannato è un caso a sé, non avevano previsto che la Cedu, sentenziando su ciascuno di loro, avrebbe nei fatti attribuito alla sentenza Contrada il valore di pronunciamento erga omnes. Aspettiamo a breve (magari anche oggi stesso) che il Fatto quotidiano replichi l’articolo dell’11aprile scorso che, sotto il titolo “La verità dei fatti nello strano caso di Bruno Contrada” , portava due firme prestigiose, quelle di Giancarlo Caselli e di Antonio Ingroia.

Era accaduto proprio in quei giorni che l’ex capo della squadra mobile di Palermo avesse ricevuto la liquidazione di 667.000 euro dalla corte d’appello di Palermo per ingiusta detenzione. Una piccola tardiva soddisfazione, dopo ventitré anni di torture, con l’arresto infamante nella notte di natale del 1992, mentre era al culmine di una brillante carriere, e poi il carcere militare e infine il rincorrersi di opposte sentenze, condanna assoluzione condanna. Poi, ormai in età avanzata, il primo riconoscimento, ma non da un tribunale italiano, dalla Corte europea che ha detto a chiare lettere che lui non doveva essere condannato. E infine, ma questo arriva sempre dopo purtroppo, il risarcimento per l’ingiusta detenzione.

Caselli e Ingroia erano furibondi, quel giorno, e scrissero senza pudore che il caso Contrada era come l’araba fenice, che risorgeva sempre, nel senso che loro non riuscivano a liberarsene mai, a seppellire una volta per tutte la storia infame di un’ingiustizia. Contestavano apertamente la decisione della Cedu. Secondo loro il reato di concorso esterno in associazione mafiosa esiste eccome, nel codice penale. Non è solo prodotto di giurisprudenza. Infatti basta mettere insieme l’articolo 110 (concorso) e il 416 bis e il gioco è fatto: prendi due e paghi uno. E poiché, ragionano i due ex magistrati, quei due reati esistevano da ben prima che Contrada tenesse i comportamenti che loro ritengono illegali (l’art. 110 fin dal 1930, codice Rocco, l’altro dal 1982, dopo l’assassinio del generale Dalla Chiesa), il gioco è fatto. Il reato che non c’è diventa improvvisamente il reato che c’è.

Giornata luttuosa per chi preferisce arrampicarsi sui vetri piuttosto che accettare una sconfitta di politica giudiziaria. Sì, proprio politica giudiziaria, anche se a certi magistrati non piace sentirselo dire. Prima di tutto perché il caso Contrada è stato in quegli anni al centro di vere battaglie sulla politica antimafia, e la sua uccisione professionale con l’arresto ha aperto la strada ad altre brillanti carriere e a una diversa gestione dei “pentiti”, preferiti agli informatori, di cui lui preferiva fare uso. E anche perché l’invenzione del reato che non c’era, applicato a persone che rivestivano ruoli istituzionali, ha consentito di colpire, attraverso le incriminazioni e gli arresti, in chiave politica il famoso terzo livello nel quale per esempio Giovanni Falcone non aveva mai creduto. La decisione della Cedu di considerare ricevibile il ricorso del senatore Inzerillo è un altro colpo di piccone alla politica antimafia degli anni novanta e a qualche nostalgico dei “bei tempi”.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.