Credo che, per valutare appieno le ragioni del No al referendum del 20 e 21 settembre, sia opportuno un confronto con le due precedenti riforme costituzionali, che pure furono sottoposte al voto referendario: quella del novembre 2005, voluta dal centro-destra col governo Berlusconi, e l’altra dell’aprile 2016 votata dalla maggioranza di centro-sinistra su iniziativa del governo Renzi. Anche quelle due riforme, che pure nascevano da logiche tra loro diverse, prevedevano la riduzione del numero complessivo dei parlamentari, ma in un quadro di superamento del bicameralismo paritario. Entrambe le riforme poi modificavano il nuovo testo del Titolo V della Costituzione sulle competenze dello Stato e delle Regioni, incidendo in particolare sulla legislazione concorrente, che aveva sollevato tanti conflitti avanti alla Corte Costituzionale e i cui danni si sono visti anche di recente.

Quelle riforme furono poi bocciate dai referendum confermativi promossi dalle forze politiche che erano all’opposizione rispetto ai governi che le avevano sostenute. Ma si trattò di conflitti tra forze che avevano una diversa visione politico-costituzionale del ruolo dei vari organi dello Stato-ordinamento, ma sempre nel quadro di una democrazia rappresentativa. La riforma sul taglio dei deputati e dei senatori, senza nessun’altra misura correttiva, sottoposta adesso al voto referendario, si muove invece in una logica del tutto differente. Essa nasce dal rifiuto, proclamato fin dalla sua origine dal Movimento 5 Stelle, della democrazia rappresentativa, cui contrappone una presunta democrazia diretta. Non a caso la proposta di taglio dei 5 grillini era accompagnata da un’altra sui referendum propositivi, i cui esiti avrebbero dovuto tradursi in legge prevalendo rispetto ad ogni voto parlamentare. Per non parlare del vincolo di mandato, che avrebbe dovuto annullare ogni possibilità di scelta dei singoli parlamentari eletti per sottoporli alle decisioni dei detentori del simbolo della lista o a ipotetici centri decisionali esterni, espressioni di democrazia diretta, come la piattaforma Rousseau.

Non a caso il Movimento 5 Stelle, divenuto dopo le elezioni del 2018 determinante per la formazione del governo, ha imposto come «condicio sine qua non» ai suoi diversi alleati l’approvazione della legge sul taglio secco del numero dei parlamentari che, di buon grado Salvini, nel quale pure è forte la vocazione populista, a denti stretti il PD, hanno dovuto accettare. In questo secondo caso il PD aveva condizionato il voto a favore sulla riforma costituzionale con l’impegno ad accompagnarlo con una riforma della legge elettorale e la revisione dei regolamenti parlamentari, indispensabile per garantire il funzionamento del Senato che restava con gli stessi poteri della Camera, ma sul cui funzionamento la riduzione numerica inciderebbe con ben altro peso. Ora, a parte l’assurdità di legare una riforma della Costituzione, che rimane la prima nella gerarchia delle fonti, a modifiche di leggi ordinarie o regolamentari, le due richieste del PD appaiono rinviate a data da destinarsi. Il 20 e 21 settembre si vota quindi solo sul referendum che riguarda il taglio del numero dei parlamentari: cioè quello che il Movimento 5 Stelle proponeva come primo passo per il superamento della democrazia rappresentativa.

E ciò che più sorprende è che, a differenza del voto del 2006 e del 2016, questa volta non vi è scontro tra forze di maggioranza e di opposizione. Infatti, a parte la lodevole eccezione di +Europa e di Azione di Calenda, i partiti rappresentati in parlamento si sono pronunciati per il Sì o, al massimo, come Forza Italia e Italia Viva hanno lasciato libertà di coscienza. È pur vero che numerose voci si sono levate soprattutto in Forza Italia, ma anche nel PD, e da ultimo, Giorgetti nella Lega, per sostenere le ragioni del No (a cominciare dalla falsità sui presunti risparmi, per cui, peraltro, nessuno ha fatto un confronto con quelli ben maggiori che si sarebbero avuti con l’abolizione del CNEL e delle Provincie proposta nel referendum del 2016). Una vittoria del Sì ricadrebbe comunque sulla responsabilità delle tradizionali forze politiche della Seconda Repubblica che, per paura di apparire come difensori della “casta” di fronte al populismo dilagante, rischiano di avviare il Paese verso una deriva sudamericana. Non a caso i 5 Stelle sono stati gli unici sostenitori di Maduro in Occidente.