Sono passati ormai trent’anni da quel 9 giugno che inaugurò la stagione dei referendum elettorali. L’iniziativa, che ebbe come indiscusso leader e tenace promotore Mario Segni, fu uno dei punti più alti dello sforzo di riforma istituzionale e anche una delle poche occasioni in cui le speranze di rinnovamento durarono più dello spazio di un mattino. In quest’epoca in cui qualcuno si illude che i problemi della politica sarebbero miracolosamente risolti dalla democrazia diretta, bisogna ricordare che quel referendum non fu pensato per abbattere le istituzioni rappresentative.

Al contrario fu il tentativo di innescare un processo riformista per rivitalizzare la democrazia parlamentare rendendola più efficiente e più responsabile di fronte al corpo elettorale. Esso, inoltre, si rivelò l’unico mezzo per sbloccare la stagnazione riformatrice, cui i partiti ormai da un quindicennio non riuscivano a far fronte. Tramontati i tentativi di rinnovamento per via istituzionale (la “Grande riforma” craxiana e la Commissione Bozzi) o politica (l’ambizione di costruire una democrazia dell’alternanza mediante la formazione di una sinistra europea anche attraverso il riequilibrio di forza tra socialisti e comunisti), la X legislatura (1987-1992) si rivelò l’apoteosi della stagnazione, simboleggiata dal famoso Caf (dalle iniziali di Craxi, Andreotti, Forlani) e priva di qualsiasi respiro strategico. Il referendum del 1991 (insieme al successivo del 1993) rappresentò inoltre l’estremo tentativo di cambiare il sistema “per via politica”, prima che su di esso si abbattesse la valanga di Mani Pulite nel 1992.

Certamente sia il referendum che le iniziative giudiziarie concorsero oggettivamente all’abbattimento della prima Repubblica, ma sarebbe storicamente errato (benché questo ci dica la vulgata ufficiale) dimenticare che il movimento referendario precedette le inchieste. Queste, forse, avrebbero avuto un altro decorso se dal sistema politico fosse giunta una risposta più adeguata alle istanze di cambiamento. I referendum non furono un escamotage tecnicistico. Furono preparati da un lungo dibattito culturale. La riflessione sul compimento della democrazia e sulla necessità di superare il modello consociativo (figlio del contesto geopolitico della guerra fredda) fu ricchissima. Si invocava la democrazia dell’alternanza, resa difficile anche dalle scelte costituenti, che, per necessità, avevano privilegiato gli istituti di “mutua garanzia” tra i partiti, piuttosto che governi stabili ed efficaci. Alla caduta del muro di Berlino, nel 1989, la “massa critica” per tentare un cambiamento era ormai matura.

Nel 1988 nacque il Movimento per la Riforma elettorale, di Segni, che incontrò sulla propria strada le proposte dei radicali di Marco Pannella. Sulle riforme poi si mostrò qualche attenzione di leader come De Mita e Occhetto e di studiosi come Roberto Ruffilli, ucciso nel 1988 dalla Brigate rosse. Ho avuto l’opportunità di partecipare a quelle vicende da un angolo visuale molto particolare. Fu, infatti, la Fuci (Federazione Universitaria Cattolica Italiana) che io presiedevo insieme a Anna Maria Debolini (la parità di genere era praticata per statuto), a lanciare pubblicamente, nel suo 49° Congresso, a Bari, l’idea del referendum. Sul piano tecnico le soluzioni non erano semplici. Si trattava di superare una giurisprudenza costituzionale che escludeva simili interventi, qualora, all’esito del referendum, non fosse scaturita una “normativa di risulta” capace di funzionare (e consentire le elezioni) senza necessità di ulteriori interventi del legislatore. L’idea su cui si lavorava era quella di utilizzare l’impianto uninominale della legge elettorale del Senato togliendo le disposizioni (aggiunte a seguito di un emendamento in Assemblea Costituente) che, di fatto, trasformavano il sistema in un proporzionale pressoché puro. Il problema era che nel corso degli anni il numero dei collegi uninominali non era stato aggiornato: ne mancavano 77 su 315.

Così, proposi di costruire il quesito in modo da sfruttare la normativa proporzionale solo per eleggere quei 77 senatori, trasformando in uninominale tutto il resto: un maggioritario corretto con una quota proporzionale. Purtroppo quel referendum fu comunque bocciato dalla Corte (il via libera arrivò solo nel 1993). Nel 1991 rimaneva solo il referendum sulla preferenza unica. Meno “dirompente” ma dal significato altamente simbolico. Le preferenze multiple erano, infatti, un elemento di inquinamento e, persino, di controllo del voto in alcune zone del paese. E il referendum passò con il 60% dei sì, la maggioranza assoluta degli italiani. A distanza di trent’anni, lo scetticismo sulle riforme è ormai dilagante. Tanto che persino il movimento referendario viene liquidato come un’ambizione illusoria e inconcludente. È una narrazione che conviene a tanti. A chi è contro il maggioritario, ma anche a chi preferisce giocare nella confort zone dello status quo, piuttosto che rischiare il cambiamento che magari gli converrebbe pure. In realtà quei referendum non furono affatto inutili. Fin quando durò, il maggioritario assicurò comunque (dati alla mano) la maggiore stabilità dei governi della storia repubblicana e pre-repubblicana. E consentì anche politiche economiche (e governo del debito) più virtuose di quelle che si ebbero prima e anche dopo.

Il fallimento, invece, fu ancora una volta della politica. Le leggi elettorali, infatti, possono fare solo una parte del lavoro. Il resto devono farlo riforme costituzionali e regolamentari che nessuno riuscì mai a portare a termine. Per quelle, purtroppo, non c’era possibilità di un referendum popolare. La fine della stagione referendaria, insomma, più che essere una prova del fallimento dell’iniziativa è semmai una conferma della gravità dei problemi in cui il nostro sistema politico ormai da cinquant’anni langue e in cui continua ad agonizzare senza il coraggio e la capacità di affrontarli una volta per tutte. Coi risultati che vediamo.