Bernie Sanders, senatore del Vermont e fervente democratico, più volte in competizione per ottenere la candidatura del suo partito nelle elezioni presidenziali, si è profuso in un’analisi che non lascia scampo a quanti oggi solidarizzano con la resistenza ucraina. Ovviamente Sanders non esita a condannare l’invasione della Russia, che, a suo avviso, non è una risposta; come – ha scritto sul Guardian – non “lo è l’intransigenza della Nato”. «Sono estremamente preoccupato quando sento i familiari tamburi a Washington – dichiara Sanders – la retorica bellicosa che viene amplificata prima di ogni guerra, chiedendo che dobbiamo “mostrare forza”, “diventare duri” e non impegnarci nella “pacificazione”. Un semplicistico rifiuto di riconoscere le complesse radici delle tensioni nella regione mina la capacità dei negoziatori di raggiungere una soluzione pacifica».

A dire il vero, sembra che questi tamburi di guerra li senta suonare solo lui, poiché l’inquilino della Casa Bianca, da giorni non fa che ripetere la classica formula del “non aderire né sabotare”. Sanders ritiene che «uno dei fattori precipitanti di questa crisi, almeno dal punto di vista della Russia, è la prospettiva di un rafforzamento delle relazioni di sicurezza tra l’Ucraina e gli Stati Uniti e l’Europa occidentale (ne esiste una orientale? ndr), compresa quella che la Russia vede come la minaccia dell’adesione dell’Ucraina alla Nato, un’alleanza militare originariamente creata nel 1949 per affrontare l’Unione Sovietica». E a questo punto il senatore invita a ripassare la storia ricordando che quando l’Ucraina divenne indipendente dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, i leader russi chiarirono le loro preoccupazioni sulla prospettiva che gli ex stati sovietici entrassero a far parte della Nato e schierassero forze militari ostili lungo il confine della Russia.

I leader statunitensi riconobbero, allora, la legittimità di queste preoccupazioni, che secondo Bernie Sanders, lo sarebbero ancora. Poi il senatore si lancia in una rievocazione della linea di politica internazionale degli Usa, dalla Dottrina Monroe (“l’America agli americani” considerata dall’amministrazione Trump “viva e vegeta”) in poi, passando per la crisi di Cuba del 1962, fino all’appoggio ai golpe sudamericani, indicando come esempio politicamente corretto il caso della Finlandia, «uno dei paesi più sviluppati e democratici del mondo, confina con la Russia e ha scelto di non essere membro della Nato’’. Come gli Usa hanno di fatto delle “sfere di influenza” è ipocrita – ecco la dottrina Sanders – non concedere a Putin il diritto di intervenire contro qualsiasi paese che possa minacciare gli interessi russi. Per dare credibilità alla sua analisi, Sanders termina con un paradosso: «qualcuno crede davvero che gli Stati Uniti non avrebbero qualcosa da dire se, ad esempio, il Messico dovesse formare un’alleanza militare con un avversario degli Stati Uniti?».

In realtà è il senatore che dovrebbe ripassare la storia, perché nella sua ricostruzione ignora parecchi passaggi importanti nelle vicende degli ultimi trent’anni. Anche ammettendo che il gentlemen’s agreement tra Bush e Gorbaciov sia avvenuto (Der Spiegel ha pubblicato persino dei documenti) e che la Nato si fosse impegnata ad accontentarsi dell’adesione della Germania unificata senza spingersi troppo ad Est, inglobando come è avvenuto dal 1999 a 2004 tutti i paesi ex satelliti e le Repubbliche baltiche, Vladimir Putin ha impiegato 18 anni per ritenere intollerabile il nuovo assetto determinatosi dopo l’implosione dell’Urss (l’Impero sovietico fece tutto da solo, mentre l’Occidente stava a guardare meravigliato)? E non è neppure vero che nei confronti della Federazione russa vi siano stati degli atteggiamenti ostili da parte delle potenze occidentali.

Nel 2002 furono sottoscritti tra i premier dei 19 Paesi della Nato e Putin gli accordi di Roma, in base ai quali venivano individuati ambiti importanti di collaborazione tra cui la lotta al terrorismo, la difesa e la collaborazione militare; rafforzando, così, i rapporti amichevoli stabiliti in precedenza. Dal 1989 ai lavori dell’Assemblea dell’Onu partecipavano rappresentanti dei Parlamenti dei paesi dell’Unione europea e dell’Europa centro-orientale, cui venne attribuito lo status di membri associati (Armenia, Austria, Azerbaijan, Bosnia Erzegovina, ex Repubblica iugoslava di Macedonia, Federazione russa, Finlandia, Georgia, Moldavia, Montenegro, Serbia, Svezia, Svizzera, Ucraina). Il G7 fu allargato alla Russia fino a quando nel 2014 Putin decise di annettere la Crimea. La Georgia e l’Ucraina sono considerati dalla Nato “paesi attenzionati” da quasi un decennio. Putin ha cambiato atteggiamento dopo la cosiddetta rivoluzione dell’Euromaidan, quando gli ucraini, nel 2014, rovesciarono il governo filo-russo e si avvicinarono alla Ue e alla Nato.

Se gli Usa non hanno mai rinunciato – come ha scritto Sanders – alla Dottrina Monroe, Putin ha riattivato gli accordi di Yalta? I Paesi vicini della Federazione russa devono essere osservanti ai diktat del Cremlino come il boss della Bielorussia? Altrimenti arriva l’Armata rossa come – ai tempi delle “zone di influenza’’ – in Ungheria (1956) e in Cecoslovacchia (1968)? Diciamoci la verità. I casi della Crimea, della Georgia, fino alla pratica annessione del Donbass sono gravi violazioni del diritto internazionale, ma secondo la realpolitik potevano essere interpretate come azioni a scopo precauzionale e difensivo. Ma l’invasione dell’Ucraina è un atto di guerra che non può avere alcuna “comprensione”. Putin con quest’azione ha riscritto la storia del “secolo breve”. Si è arrogato il diritto di “denazificare” l’Ucraina; ma questo è un percorso insidioso. Absit iniuria verbis perché – come ha scritto Sansonetti è assurdo paragonare Putin a Hitler – ma anche il nazismo in Germania costruì la propria “resistibile” ascesa sulle condizioni capestro che le potenze vincitrici della Grande Guerra avevano inflitto alla Germania sconfitta.

Oggi gli storici riconoscono che furono commessi gravi errori da parte delle potenze vincitrici della Grande Guerra nei confronti della Germania, che fu privata del bacino della Ruhr, sottoposta a un debito di guerra esorbitante che condizionò in modo negativo la Repubblica di Weimar (un’eccellenza di democrazia per quei tempi). Poi a Versailles si disegnarono i confini degli Stati creando otto milioni di apolidi. Oltre al caso Danzica, fu costituita a tavolino la Cecoslovacchia, dove – nella regione dei Sudeti – vi erano tre milioni di tedeschi (sui 12 milioni di cittadini del nuovo Stato). Se è politicamente comprensibile la guerra scatenata da Putin in difesa della popolazione russofona, ci tocca di rivalutare Neville Chamberlain che a Monaco riconobbe le pretese di Adolf Hitler sulla Cecoslovacchia allo scopo di salvaguardare la pace in Europa.

Se un Paese crede di aver diritto ad uno “spazio vitale”, pretende di rivendicare i confini “naturali” di un “glorioso” passato (lastricato di milioni di morti e piagato da un regime di feroce oppressione), vuole superare lo status di potenza regionale (copyright Barack Obama) per ritornare al medesimo rango degli Usa e della Cina, il mondo deve stare a guardare imbelle? Nel 1938, Gran Bretagna e Francia – disse Winston Churchill – persero l’onore per evitare la guerra; ed ottennero sia il disonore che la guerra. Ma almeno si fecero garanti (pur inutilmente) dell’indipendenza della Polonia, la nazione oggi aderente alla Nato, ai confini della Russia. Al pari delle Repubbliche baltiche. Forse l’Alleanza atlantica dovrebbe “battere un colpo”. Come fanno i fantasmi.

Si fa un gran parlare della ritrovata compattezza dell’Occidente, dimenticando che in Europa (adesso si spiegano le ragioni degli aiuti finanziari ad alcune forze politiche e le incursioni informatiche) Putin ha disseminato in alcuni paesi, dove si andrà presto a votare, delle “quinte colonne’’ che potrebbero vincere le elezioni o condizionare comunque la politica estera. Siamo sempre lì. Arriva un momento, nella storia, in cui alle democrazie viene chiesto se sono disposte a morire per Danzica. Chi offre l’altra guancia prende solo due schiaffi.