Quello di Angelo Burzi non rimarrà, purtroppo, l’ultimo suicidio generato da un mondo complesso e controverso come quello della giustizia. Sia chiaro: persone si tolgono la vita ovunque a causa di una condanna o di una carcerazione ritenute insopportabili. In questi giorni si parla di quel Jeffrey Epstein che, in Usa, ha cancellato la propria esistenza schiacciato dallo scandalo sessuale che lo ha visto protagonista.

L’esperienza del processo e, soprattutto, quella del carcere è dura, molta dura a sopportarsi; se poi a distruggere la propria vita è l’imputato che si proclama innocente in un gesto di estrema disperazione, è inevitabile la spinta del sistema e dei suoi corifei a trovare giustificazioni, a farsi schermo con le condanne. Si finisce, così, per macchiare la vittima, il suicida, di una duplice colpa: quella di essere un pregiudicato matricolato e quella di non aver saputo reggere il peso della condanna. È una prova muscolare quella che ci si attende dal reo, meglio ancora se – a capo cosparso di cenere – si proclama anche sinceramente pentito e bisognoso di perdono. Guai a ribellarsi a questo cliché che rassicura il sistema, di cui anzi il sistema ha un bisogno estremo per saldare alla propria, inevitabile primazia giuridica, anche una sorta di supremazia morale, capace di muoversi a compassione verso l’empio che accetta supinamente il proprio destino.

In fin dei conti il dibattito sull’ergastolo ostativo si concentra tutto nel postulato sotteso a questa doppia supremazia: carcere duro, ma sconti e benefici per chi si sottomette allo Stato e collabora. Indipendentemente, anzi a dispetto di ogni percorso rieducativo e di ogni resipiscenza, si accettano solo genuflessi e riscattati. Con una certa approssimazione certo, ma alcune reazioni quasi infastidite al suicidio di Angelo Burzi potrebbero trovare una spiegazione in questa doppia soggezione che ciascun condannato, ciascun detenuto si pretende debba pagare allo Stato, quasi che la perdita della verginità giuridica ed etica degradi la dignità della persona umana e la renda mero oggetto di una potestà superiore, onnivora. Troppo facile è non credere all’autolesione mortale in nome della propria innocenza, quando una sentenza definitiva predica il contrario. Troppo semplice ricordare al reprobo che, concluso il processo, nessuna innocenza sopravvive e ciò che conta è la fredda prosa di un verdetto.

Però. Però a leggere le ultime parole dell’ex consigliere regionale, la sua laica e disperata professione di innocenza si coglie altro. Vi è una filigrana che tiene insieme quelle frasi, disvela un mondo ulteriore in cui – nostro malgrado – siamo stati trascinati e, quindi, confinati. La legge Severino, prima, e la legge Spazzacorrotti, dopo, hanno disegnato – forse anche a dispetto dei loro fautori – i perimetri di un’afflizione imponente, quasi smodata per imputati e condannati. Sospensioni, confische, carcere duro, misure di prevenzione, decadenze e altro ancora hanno messo in funzione un gigantesco triangolo che risucchia le vite, prima ancora che sanzionare le condotte dei colpevoli. È un sistema afflittivo perfetto, panottico, senza scampo che colpisce il reo a 360° non lasciandogli alcuna via di fuga. Il peculato nei fondi messi a disposizione dei consiglieri regionali ha, obiettivamente, avuto risposte ondivaghe in molte parti del paese. Vi sono indagini fallite che proseguono stancamente solo per non certificare l’innocenza degli imputati e assoluzioni già pronunciate, anche qualche condanna.

Angelo Burzi era stato assolto in primo grado e condannato in appello, sino alla conferma in Cassazione. Un percorso, obiettivamente, non rettilineo che – a prescindere totalmente dal merito – deve aver sfibrato l’imputato al punto tale da indurlo al gesto estremo del togliersi la vita. Ma la lettera non dice questo o almeno non dice solo questo. Non può farsene un’esegesi che sarebbe sconveniente e inappropriata, ma un paio di punti meritano di essere colti. Innanzitutto il prologo: «Natale 2021 Conoscere per decidere». Un’ovvietà per qualunque persona, a maggior ragione per i giudici che si sono occupati di lui. Ma conoscere cosa? Le carte forse? Ma quello è scontato che siano state conosciute. La sua vita? Ma quella resta praticamente fuori dalle aule di un processo, tutto concentrato su pochissimi frammenti di un’esistenza, spesso su un solo gesto, su un attimo d’impeto. Le aule non giudicano vite, esaminano fatti, comportamenti.

Cosa voleva, quindi, Angelo Burzi? Forse che ci accostasse alla sua condanna e alla sua morte conoscendo la sua verità, quella che le prove dell’accusa hanno schiantato e di cui non c’è traccia nel suo certificato penale. Certo la malattia da poco scoperta, certo le sofferenze probabili e imminenti: «si preannuncia quindi un prossimo futuro dl approfondimenti, di interventi chirurgici e di terapie per nulla gradevoli… panorama non certo entusiasmante, ma c’è di peggio. La giustizia è un esempio appunto del “peggio”, non trascurando che lo scrivente è certo di essere totalmente innocente nei riguardi delle accuse a lui rivolte». La giustizia come una malattia, come un male oscuro che lo ha fagocitato e, quindi, restituito alla vita da colpevole. Poi l’accerchiamento, lo schianto imposto da leggi imperturbabili nella loro supponente severità. La paura di perdere il vitalizio come conseguenza della condanna e, ancora, «probabilmente si sarà fatta nel frattempo nuovamente viva la Corte dei conti pretendendo le conseguenze del danno di immagine da me provocato, diciamo non poche decine di migliaia di euro».

Se non fosse che «tutto ciò è .. insostenibile, banalmente perché col vitalizio io ci vivo, non essendomi nel corso della mia attività politica in alcun modo arricchito, e sostanzialmente perché non sono più in grado di tollerare ulteriormente la sofferenza, l’ansia, l’angoscia che in questi anni ho generato, oltre che a me stesso, anche attorno a me nelle persone che mi sono più care». E, infine, il richiamo alla soggezione morale, al supplizio etico che quella condanna imponeva senza scampo; il rimprovero (giusto o ingiusto che sia) a chi secondo lui «ci ha messo molto del suo, probabilmente aggiungendo le sue valutazioni di ordine etico morale, del tutto soggettive e prive sia di sostanza che di sostenibilità giuridica, alle richieste dell’accusa».

I processi per chi saccheggia le risorse pubbliche o si corrompe sono giusti, anzi necessari. Tuttavia guai a trasformarli in una sorta di gogna perpetua, nella bulimica ricerca di ogni più minuto brandello della vita pubblica di una persona per sanzionarlo e reprimerlo. Se le pene, tutte le pene, si trasformano in una perenne vendetta per soddisfare il senso di rivalsa della plebe, allora anche il sacrificio della vita acquista la dignità di un testardo argomento contro la giustizia di una condanna.