Mentre si alzano le tensioni per il rischio di una seconda ondata Covid a settembre, può essere utile fare qualche riflessione sul fenomeno più deflagrante e sulla parola più pronunciata del periodo di lockdown: lo smart working, o lavoro a distanza, o lavoro agile che dir si voglia, è arrivato per restare? E se sì, come in molti pensano, in che modalità resterà? La domanda ce la poniamo tutti, e se la sono posta anche a Palazzo Chigi, dove è suonato un campanello d’allarme. I dipendenti del governo, tra i più efficienti, considerati i premi e gli aumenti di stipendio che hanno ricevuto in questi anni, hanno infatti presentato un ricorso contro la Presidenza del Consiglio dei Ministri per le modalità in cui è stato adottato lo smart working in questi mesi.

Lo smart working sta risultando invasivo, e un fatto è evidente: la sua regolamentazione a questo punto è diventata una necessità per milioni di lavoratori. Dalla sera dell’8 marzo, quando il governo per decreto decise di inaugurare la stagione del lavoro agile, sono passati 4 mesi. In questo periodo è andato affermandosi sempre di più come nuovo paradigma di lavoro e di vita per sempre più italiani: a fine aprile erano quasi due milioni le persone ad aver adottato questa modalità lavorativa, di cui il 90 per cento per la prima volta. Oggi sono quattro milioni, e secondo l’Istat potrebbero raddoppiare nei prossimi mesi, considerata la platea di lavoratori e datori di lavoro che potrebbero preferire il lavoro agile a prescindere dall’emergenza Covid. Imposto fulmineamente dalle circostanze in un Paese molto sociale e molto poco digitale, il lavoro smart è entrato, apparentemente, come un coltello nel burro. Ora però anche qui si deve entrare in una Fase 2, perché il lavoro smart è soggetto a una regolamentazione alquanto rarefatta, priva di norme chiare, che rischia di scaricare i suoi effetti negativi sul mondo del lavoro.

Se da un lato lo smart working ha rappresentato un vero e proprio salvagente economico per migliaia di imprese che hanno potuto continuare a erogare i propri servizi riducendo i costi e che oggi applaudono insieme a milioni di lavoratori la flessibilità del nuovo strumento, dall’altro, a fronte di mesi in cui la nostra società ha dovuto e potuto adattarsi al nuovo dizionario di azioni e strumenti imposti, sembra chiaro che un simile cambiamento, se non prontamente regolamentato, rischia di rivelarsi l’ennesimo scalino nella storia sociale del nostro Paese su cui rischiamo di inciampare invece che salire. Non è possibile infatti pensare di lasciare il lavoro a distanza sprovvisto di quella necessaria visione complessiva che garantisce ai datori di lavoro e ai dipendenti tutele e protezioni che al momento, di fatto, mancano. Se sono evidenti i benefici, non solo in termini di risparmi ma anche di aumento della produttività, strettamente legato all’aumento di flessibilità oraria e alla possibilità di trascorrere maggior tempo coi propri affetti, ci sono una costellazione di effetti negativi che nel binocolo del governo non sono ancora entrati e su cui invece occorrerebbe soffermarsi.

L’aumento di flessibilità, infatti, si mostra in sempre più casi correlato anche ad un aumento dello stress dei lavoratori. A questo devono aggiungersi gli ostacoli tecnologici legati al cambiamento, gli aumenti delle bollette domestiche, le difficoltà di organizzare i task con nuove modalità, con le mura di casa che diventano le sbarre della “gabbia della reperibilità”. Gli ultimi dati Istat mostrano che circa il 40% di chi lavora da casa dichiara di essere stato contattato fuori dell’orario di lavoro almeno tre volte nel corso degli ultimi due mesi; la quota arriva quasi al 50% per chi usa la casa come “ufficio” occasionale. Nel frattempo, aumentano le disuguaglianze: territoriali, generazionali e di genere, esasperate dai diversi livelli di alfabetizzazione digitale. A pagare di più le spese di una mancata regolazione potrebbero essere ancora una volta le lavoratrici, su cui grava già il peggioramento degli ultimi anni del divario di genere nella qualità del lavoro, come riportato sempre da Istat.

Diversi studi confermano i rischi legati all’aumento dei livelli di ansia, stress e depressione per i lavoratori “smart”. Il più recente è un sondaggio di Opinionway per i vertici di Emprunte Humaine, che ha acceso il dibattito nazionale sullo smart working e il diritto dei lavoratori alla disconnessione in Francia, secondo cui oltre un terzo delle lavoratrici intervistate avrebbe riscontrato sintomi depressivi legati alla modalità di lavoro da casa. Ma il “boomerang” dello smart working non rischia di essere solo quello legato alle implicazioni psicologiche, bensì alle ricadute economiche e occupazionali che rischia di produrre nel breve periodo. Un effetto collaterale del lavoro agile è infatti il crollo dei ricavi di tutte quelle attività commerciali e di ristorazione che ruotano attorno agli uffici. Altro effetto, il crollo del mercato immobiliare. Dal governo finora sono solo arrivati applausi ai successi del lavoro agile, senza alcun intervento normativo incisivo volto a regolamentare la materia e arginarne i potenziali effetti negativi.

Se per i dipendenti pubblici il ministro per la Pubblica Amministrazione Fabiana Dadone si è limitata ad annunciare fino a fine anno il prolungamento dello smart working per il 50% dei lavoratori che svolgono attività eseguibili in modalità agile, per i dipendenti privati si lascia tutto alle trattative delle singole aziende con i sindacati, senza che ci sia una vera e propria normativa volta a regolamentare questa nuova stagione. Il problema, comunque la si pensi sullo smart working, è che non possiamo permetterci di essere superficiali nell’accogliere un cambiamento così radicale, così come non possiamo permetterci un governo che tarda ad intervenire mentre la vita e il lavoro corrono su un filo rosso in cui spazio privato e pubblico si fondono e confondono sempre di più.