L’assise degli Stati generali dell’economia – ogni giorno che passa – somiglia sempre più alla riunione dello Stato maggiore dell’esercito di Franceschiello. Uno schieramento di signore e signori mascherati seduti intorno al tavolo (è dubbio che vi sia il prescritto distanziamento) incontra altre signore e signori in maschera che illustrano, ognuno durante il suo turno di ricevimento, i loro cahiers de doléances (a che cosa servirebbero altrimenti gli Stati generali?) di cui il governo prende diligentemente nota, magari – se l’interlocutore è abbastanza importante da meritarlo – anticipando qualche promessa.

Certo, quando Conte, tornato alla professione di avvocato, scriverà le sue memorie sulla permanenza a Palazzo Chigi, tratterà la kermesse di Villa Doria-Pamphilij come un episodio cruciale della sua strategia, scopiazzata da un Grande della prima Repubblica: meglio tirare a campare che tirare le cuoia (copyright Giulio Andreotti). Che cosa poteva inventarsi di più adeguato, Giuseppe Conte per avvalersi di questa linea di condotta, tanto collaudata nella storia d’Italia? Un evento al giorno toglie la crisi d’attorno. Fino a quando la pandemia teneva la scena, il gioco era facile: l’opinione pubblica era vittima di una campagna televisiva terroristica, tanto che farle accettare di buon grado qualsiasi misura – anche la più stupida – avesse ricevuto la “bollinatura” dei virologi.

Nelle memorie, Conte descriverà quel periodo come i “cento giorni” in cui ha goduto dell’ebbrezza di un potere da monarca assoluto. Poi, quando la pandemia ha diminuito la “spinta propulsiva” e si è deciso di “riaprire”, il presidente del Consiglio era chiamato a prendere delle decisioni – su questioni che nel frattempo erano maturate – con l’obiettivo di non suscitare i risentimenti del governo italiano. Insomma, la montagna aveva raggiunto Maometto. In sostanza sia Macron che Angela Merkel (che dal 1° luglio avrà il turno di presidenza semestrale) hanno fatto di tutto per non dare alibi all’Italia. Paradossalmente, la Commissione ha agito per privare Matteo Salvini di qualsiasi argomento di polemica anti-Ue che avesse un minimo di giustificazione. Il duo Capinera (Meloni e Salvini) presi alla sprovvista dalla munificenza delle istituzioni europee, sono stati costretti ad arrampicarsi sugli specchi, ad evocare condizionalità/capestro, a mettere in dubbio l’effettiva sussistenza degli stanziamenti promessi, ballare intorno al falò della sovranità, anche a costo di scimmiottare dopo tanti decenni di distanza (e le smentite della storia) il medesimo atteggiamento che nel dopoguerra il Pci e il Pcf, di osservanza sovietica, assunsero nei confronti del Piano Marshall del 1947.

Nonostante che i sovranisti fossero, adesso, in grave difficoltà, Conte non era in grado di decidere nulla, perché era entrata in azione la “quinta colonna” pentastellata che, al pari dell’asino di Buridano, non era riusciva a scegliere tra il fieno dell’Europa e la paglia dello spirito movimentista di un tempo. Consapevole di questo stallo Giuseppe(i) aveva provato a seguire, (anche per la linea da adottare in termini di rilancio), l’esperienza delle task force che era stata di aiuto nel vortice della pandemia. Ed ecco il mandato a Vittorio Colao, messo a far da palo in una vigna di “esperti economici” rigorosamente lottizzati. Ma la mongolfiera del grande manager non era decollata come ci si poteva aspettare, anche perché non si inventa una strategia rinchiudendo in una stanza un gruppo di persone, senza dare loro qualche input sulle scelte che il governo è intenzionato a compiere. È come delegare qualcuno a indovinare il tuo pensiero (ricordate “l’asa nisi masa” del film 8 ½ di Federico Fellini?). Occorreva un colpo di scena, una festa con tarallucci e vino, ricchi premi e cotillons. Così Conte, avendo letto un titolo di giornale che gli proponeva la convocazione degli Stati generali, si presentò alla conferenza stampa della riapertura, sbandierando quell’iniziativa come se fosse un Concilio Vaticano III. Tuttavia, il Piano Colao, come d’incanto, uscì dalla nebbia ed arrivò – prima alla stampa, more solito – poi sullo scrittoio del Presidente. E conteneva – non già una strategia palingenetica all’insegna del “nulla sarà come prima!” – ma una collana di proposte concrete che potevano essere utili nell’attuale fase di transizione, essendo privo il governo di uno straccio di idea, come avevano fatto notare, educatamente, gli ospiti autorevoli della giornata di apertura.

Ma per servirsene occorreva accollarsi delle decisioni che Conte non poteva assumere da solo (come quando circolava intensamente il virus) in una coalizione in cui gli alleati non sono in grado di condividere alcunché. Così Vittorio Colao ha svolto la sua relazione ed è stato pregato di accomodarsi con tanti ringraziamenti. È in quest’occasione che si è capito che gli Stati generali non sarebbero serviti a nulla, perchè quelle proposte del Piano C, orfane di entrambi i genitori, non sarebbero state neppure oggetto di un confronto con le parti sociali. In sostanza, l’unico progetto dotato di un minimo di concretezza veniva rimosso come se fosse un elemento di disturbo nella calma olimpica del “non fare oggi quello che continuerai a non fare domani”. Alla prova dei fatti è accaduto il prevedibile: la convocazione degli Stati generali si sta rivelando prematura e fuori tema. Prematura non solo perché il bazooka finanziario predisposto dall’Unione (Mes, Sure, Bei, Next Generation Eu) non è ancora definito e deliberato compiutamente.

E quindi, per ora, si rischia di fare i conti senza l’oste. Ma anche se i 172 miliardi promessi all’Italia arrivassero, uno sull’altro, domani, non sapremmo come spenderli, visto che non riusciamo neppure a spendere i 75 miliardi del nostro Piano congiunturale. Per non parlare delle decine di miliardi già disponibili e finanziati da anni, per le infrastrutture e le opere pubbliche, nei nostri bilanci. Occorrono delle idee, dei programmi. Non basta ripetere: riforma del fisco, innovazione, ambiente e green economy, semplificazione. Sono solo titoli che restano a galla come sugheri smarriti tra le onde. Ma c’è di più. Come ha detto il Governatore Visco nelle sue Considerazioni finali, a commento degli interventi tempestivi della Bce e delle Istituzioni europee, vi è un comune ed ineluttabile destino dell’Unione in un contesto internazionale in cui l’economia rischia di rassegnarsi a una letale quarantena protezionistica. È a livello sovranazionale che va ricercato e prodotto un “pensiero” (la parola usata Rino Formica nella sua intervista al quotidiano) che conduca alla ricostruzione di un largo mercato orientato a nuove produzioni e alla riconversione di quelle che costituiscono l’ossatura dell’apparato produttivo di ciascun Paese. Per proporre una strategia politica è necessario che i programmi siano credibili e sostenibili.

E non è solo un problema – pur essenziale – di stanziamenti adeguati e disponibili; è necessario che si verifichi un concorso di condizioni che non dipendono da un unico Paese, ma da una concertazione comunitaria in grado di influire sulla ricostruzione e il ri-orientamento dell’economia globale. E queste condizioni, per ora, non si sono ancora determinate nel loro insieme. L’Unione non può e non vuole risolvere i problemi dicendo agli Stati membri “ecco le risorse che vi spettano: fate i bravi”. È urgente un’iniziativa come quella assunta a “Lisbona 2000”, con l’indicazione di obiettivi da conseguire secondo un crono-programma di medio periodo, flessibile, ma definito. Questo salto di qualità, che richiede una nuova sovranità europea, non è ancora stato compiuto.