Non fa mea culpa, Donald Trump. Anzi, va all’attacco. E porta con sé un partito ormai ridotto a docile strumento nelle mani del Capo assoluto. E sembra fargli il solletico la notizia che il procuratore di New York, Letitia James, intenda sentire l’ex presidente USA, e con lui il figlio Donald jr e la moglie Ivanka, nell’ambito dell’indagine in corso per verificare se la società a lui riconducibile ha gonfiato il valore dei suoi asset per motivi fiscali. Bazzecole per chi ha deciso di partire alla riconquista della Casa Bianca.

Ma anche l’irriducibile Donald deve fare i conti con l’America che non lo ama, per usare un eufemismo. E così il tycoon, un po’ per costrizione un po’ per calcolo di opportunità, alla vigilia del giorno fatale decide di cancellare la conferenza stampa in programma il 6 gennaio, nel primo anniversario dell’assalto al Congresso americano. “Parlerò di molti temi importanti nel mio comizio di sabato 15 gennaio in Arizona”, comunica Trump. Ma lo stare sulla difensiva non è nella sua indole. Ecco allora ripartire all’attacco: “Alla luce della faziosità e della disonestà della commissione d’inchiesta sul 6 gennaio, cancello la conferenza stampa in programma a Mar-a-Lago”, e rincara la dose attaccando i democratici e le fake news. “È ormai chiaro a tutti che i media non riporteranno il fatto che Nancy Pelosi ha negato la richiesta per la Guardia nazionale o per l’esercito a Capitol Hill”, mette in evidenza l’ex presidente americano Trump che avrebbe voluto rilanciare le accuse, mai provate, di frode elettorale alle presidenziali del 2020 e attaccare la commissione della Camera.

Se una parte, alquanto risicata, dei repubblicani vorrebbe guardare avanti, puntando alla vittoria delle elezioni di Midterm, altri avevano applaudito all’idea della conferenza nel giorno del primo anniversario dell’assalto a Capitol Hill. “Il presidente Trump – aveva commentato a Fox News il rappresentante conservatore dell’Indiana, Jim Banks – ha cose importanti da dire e io, come molti altri, non vedo l’ora di sentire quello che ha da dire”. Un anno dopo, l’America si riscopre spaccata in due. Lo attestano anche alcuni sondaggi. Secondo una rilevazione del Washington Post, il 34% degli americani pensa che la violenza contro il governo a volte sia giustificata. La percentuale cambia a seconda della posizione politica, aumentando sino al 40% tra i repubblicani e scendendo al 23% tra i democratici.
Una divisione confermata anche quando si tratta di giudicare la responsabilità di Trump nell’attacco al Capitol: per il 60% degli americani ha una “grande” o “buona” quota di colpa, ma se la percentuale sale tra i dem (92%) cala invece tra i repubblicani (27%) e gli indipendenti (57%).

Per il 72% dei repubblicani e l’83% degli elettori del tycoon, inoltre, l’ex presidente ha solo “qualche responsabilità” o non ne ha “affatto”. Stando ad un sondaggio della Monmouth University, infine, quasi tre quarti dei repubblicani crede alle accuse (infondate) di Trump sui brogli elettorali, mentre secondo una rilevazione della Quinnipiac University quasi 8 su 10 vogliono che corra per la Casa Bianca nel 2024. Un anno dopo, gli americani restano preoccupati per la loro democrazia e quasi un terzo (il 28%) ritiene che l’uso della forza a volte possa essere giustificato per difendere le proprie idee e il risultato di un’elezione. Dal sondaggio di Cbs News pubblicato recentemente emerge che per i due terzi del campione intervistato l’attacco dei sostenitori di Donald Trump alla sede del Congresso il 6 gennaio di un anno fa è stato “un segno di crescente violenza politica” e la democrazia americana è ancor oggi “sotto minaccia”. Secondo il rapporto di Washington Post e Università del Maryland, invece, l’”orgoglio” degli americani per la loro democrazia, è sceso dal 90% del 2002 al 54%.

Il mese scorso la Camera Usa ha votato, con 222 sì e 208 no, perché Meadows, sia perseguito per mancata collaborazione con la commissione che indaga sull’assalto del 6 gennaio al Campidoglio. È la seconda volta che la commissione agisce per punire per oltraggio un che ha sfidato un mandato di comparizione, come già accaduto per l’ex stratega di Donald Trump, Steve Bannon. “La storia sarà scritta su questi tempi, sul lavoro che questo comitato ha intrapreso”, ha detto il deputato Bennie Thompson, presidente della commissione, “e la storia non considererà nessuno di voi come un martire, come una vittima”. Il voto della Camera invia la questione al ministero della Giustizia, dove ora spetterà ai pubblici ministeri decidere se presentare il caso a un gran giurì per eventuali accuse penali. Se condannati, Bannon e Meadows rischiano ciascuno fino a un anno di carcere per ogni accusa.

A un anno di distanza si contano settecento persone incriminate. Di queste, seicento sono state accusate di violazione di zona riservata, reato per il quale sono previste una pena massima di un anno di carcere e una multa di 100 mila dollari. Per altri – chi era armato, chi aveva messo in conto di arrestare i rappresentanti del Congresso, chi pensava a un golpe – le accuse sono più gravi, e comportano pene tra dieci e vent’anni anni di carcere. In trenta sono stati accusati di furto di proprietà del governo. In 75 sono stati accusati di aver usato armi potenzialmente letali contro i poliziotti, tra cui gas irritanti e un’ascia. Per 275 è scattata anche l’incriminazione per ostruzione e impedimento del normale processo di certificazione elettorale, di fatto hanno attentato alla vita democratica del Paese, reato che può portare a un massimo di vent’anni di carcere. Cinque si sono dichiarati colpevoli di “cospirazione”: sono membri di gruppi di estrema destra, quattro fanno parte degli “Oath Keepers”, uno dei “Proud Boys”. Più di cinquecento devono ancora essere processati, ma i casi più gravi verranno esaminati a partire da aprile, come quelli che riguardano i trenta veterani dei Marine che attaccarono i poliziotti. Tra loro, Thomas Webster, 54 anni, ex soldato e per vent’anni poliziotto del dipartimento di New York. Gli sono stati contestati sette reati. Rischia dieci anni.

Robert Scott Palmer, un uomo della Florida che ha ammesso di aver aggredito un agente a colpi di estintore, a dicembre è stato condannato a cinque anni e tre mesi di carcere. È la pena più dura emessa finora. Ma a essere chiamati in causa sono anche le persone più vicine all’ex presidente. Come Ivanka Trump. La figlia di The Donald chiese al padre di intervenire per fermare l’assalto dei suoi sostenitori al Congresso. Lo dice la rappresentante repubblicana Liz Cheney, vicepresidente della commissione d’inchiesta sul ‘6 Gennaio’, che parla di “testimonianza di prima mano” a conferma del retroscena. “Noi sappiamo che la figlia – ha detto Cheney ad Abc News – intervenne almeno due volte per dirgli, ‘per favore, blocca questa violenza’. Abbiamo una testimonianza di prima mano”. Sarebbe stato solo uno dei molti appelli a intervenire rivolti a Trump durante le drammatiche ore dell’assedio a Capitol Hill.
Un anno dopo, rimangono indelebili nella memoria collettiva immagini che passeranno alla storia. Le immagini dei rivoltosi mascherati, che brandiscono armi, bandiere confederate e simboli suprematisti, che si fanno beffe delle forze di polizia mentre scalano i balconi, che devastano le scrivanie degli uffici, che umiliano i politici riuniti nell’aula, costretti ad accovacciarsi sotto le poltrone e a indossare maschere anti gas, che sfregiano il tempio della democrazia, fanno il giro del mondo.

A partire da quella della forca eretta davanti a Capitol Hill. “Hang Pence”, impicchiamo Pence, grida la folla rivolta al vicepresidente, accusato di non avere obbedito agli ordini di Trump permettendo la proclamazione di Biden.
L’immagine simbolo però resta quella dello “sciamano” Jake Angeli. Statunitense con un nome che suona italiano (ma quello vero è Jacob Chansley) finisce sulle copertine di tutto il mondo. Impossibile che passi inosservato per via delle corna e le pelli di bisonte che indossa: non nuovo a manifestazioni di protesta, appartenente all’organizzazione di estrema destra QAnon, si è dichiarato colpevole ed è stato condannato a 41 mesi di prigione. Poi ci sono Adam Johnson che sorride e saluta portando via con sè il leggio di Nancy Pelosi e Richard Barnett con i piedi sulla scrivania della speaker della Camera. Resta il fatto che ad un anno dall’assalto dei suoi fan a Capitol Hill, in seguito al quale era dato per finito politicamente, The Donald è risorto dalle ceneri e può contare su un dominio incontrastato sui potenziali avversari repubblicani per il 2024.

Almeno questa è la fotografia scattata da un sondaggio di Reuters e Ipsos, secondo cui il 54% degli elettori repubblicani sosterrà il tycoon alle prossime presidenziali, con un vantaggio di ben 43 punti sul secondo favorito, il governatore della Florida Ron DeSantis, fermo all’11%. Seguono l’ex vice presidente Mike Pence, all’8%, e l’ex ambasciatrice all’Onu Nikki Haley, al 4%. C’è un’America che crede ancora in Trump. E che, a un anno di distanza, considera veri patrioti i “golpisti” di Capitol Hill. È l’America che annovera tra le sue fila, come teste d’ariete, sciamani, suprematisti bianchi, fondamentalisti evangelici, sovranisti incalliti…Un’America che sogna la rivincita. E la sta preparando con il suo commander in chief “derubato della Casa Bianca”. La ferita alla democrazia USA non si è rimarginata.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.