Mai il popolo americano si è trovato di fronte a scelte cui non è minimamente preparato ma su cui è diviso, molto al di là della consueta separazione fra due squadre, una col simbolo dell’asinello e l’altra dell’elefante, che si danno botte da orbi, prima all’interno del proprio recinto e poi nello sprint finale che si conclude con l’elezione di novembre e la nomina dell’imperatore repubblicano Donald Trump. L’ex Presidente sta cercando di recuperare una situazione giudiziaria che da noi non esiste: è agli arresti ma per il momento libero. Ciò non interpreta la tradizione del partito repubblicano di Abraham Lincoln che era un partito liberale antischiavista nazionalista e umanitario al tempo stesso. Trump è un liberale, drastico come lo sono tutti gli uomini e le donne di destra al mondo, nel respingere gli immigrati clandestini e al tempo stesso formandosi un elettorato la cui ossatura è proprio fatta dai lavoratori stranieri regolarizzati. Nulla di nuovo, perché in tutto il mondo questa divisione, tra chi è ancora illegale e chi è già un patriota della nuova patria, funziona così, Italia compresa.

Trump ha due altre caratteristiche che lo rendono diverso e anche opposto dagli altri repubblicani. Una è l’isolazionismo di un’America che deve proteggere con le armi la libertà di navigazione e di commercio. L’altra è incitare i contribuenti al rifiuto di sostenere le spese dei cittadini americani che si vedono minacciati dalla Russia, dalla Cina, dall’Iran. Parlando della guerra in Ucraina Trump ancora ieri ha ripetuto che se lui fosse stato alla Casa Bianca quella guerra non sarebbe mai cominciata e che in ventiquattro ore saprebbe come chiuderla. Traduzione: che crepino gli ucraini e tutti coloro che vogliono sbafare la sicurezza, offerta dall’apparato militare americano, per non avere messo da parte le risorse con cui sapersi difendere da soli. In maniera ancora più telegrafica: caro Vladimir, per me ti puoi prendere anche mezza Europa e ti posso assicurare che siamo amici come prima.

I democratici sono impantanati in una crisi di identità e in un problema tecnico irrisolvibile: Biden è lucido ma traballante. Non si ricorda mentre fa un comizio che il suo segretario di Stato sto cercando di ammorbidire i cinesi e si mette a gridare che Xi Jinping è un volgare dittatore. Per lapsus. Perché non è più giovane. E poi perché ha Hunt, il figlio scapestrato che ne ha combinate di tutti i colori proprio in Ucraina mettendosi nei guai sia con la giustizia americana che con quella del paese oggi invaso dai russi, a forza di frequentare gli oligarchi è diventato uno di loro. Uno scandalo in cui Trump inzuppa i suoi biscotti. E infatti il Biden padre, il Presidente, lo ha baciato, perdonato, ha pianto con lui, si è fatto promettere che d’ora in avanti sarà più buono, ma queste gradazioni emotive dimostrano soltanto che il candidato Biden è un’anatra zoppa che non potrà volare.

Infine, i democratici hanno il problema di Kamala Harris, vice di Biden e prima donna alla Casa Bianca. Se Biden muore, lo scettro passa a lei, senza passare per le elezioni come accadde a Lyndon Johnson quando JFK fu ucciso a Dallas. I giovani democratici considerano Kamala Harris l’estremo errore delle famiglie Obama e Clinton che l’hanno imposta. Gli afroamericani la detestano perché pur essendo scura per le sue origini indiane dell’India, si spaccia per afroamericana. Come procuratrice ha raggiunto vette di impopolarità spedendo in galera in galera chiunque fumasse canne. Non si conoscono le sue idee. Un anchorman le ha chiesto: «Lei si considera socialista?» E lei: «Se mi considero socialista? Oh, dio mio, se mi considero socialista…». E giù risate convulse. Il campo democratico non può proporre un altro presidente come candidato del prossimo anno e il presidente in carica, alla fine del suo il primo mandato, non rinuncia al suo diritto di correre per il secondo.

Gli americani si trovano di fronte a due politiche estere in conflitto e due politiche interne che si odiano. C’è Ron DeSantis, lo strepitoso governatore della Florida pieno di idee e finanziamenti, ma che alla prima uscita contro Trump è ha perso molti punti sul tabellone. Con le primarie, la parola passa di nuovo alla grande America interna del ceto medio agricolo e industriale che ha sempre l’ultima parola.

Paolo Guzzanti

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