Non sempre decidere di non decidere è la migliore decisione. Temporeggiare potrebbe alla fine rivelarsi la scelta migliore, se tutto va bene, ma anche il peggior azzardo, in caso contrario. È un grande rischio, dunque, quello che – sentiti gli uffici e un po’ confidando nello stellone italico – si è assunto il presidente della Camera (che presiede il Parlamento in seduta comune) non sciogliendo il nodo di come garantire il diritto di voto dei “grandi elettori” che dovessero risultare positivi al Covid-19 o in isolamento.

Rischio innanzitutto politico. Non osiamo immaginare cosa potrebbe succedere se, durante lo scrutinio presidenziale, un virus “antidemocratico” (smentendo le rassicuranti capacità divinatorie di qualche parlamentare questore) dovesse colpire più una parte politica che un’altra, alterando sensibilmente gli equilibri politici in un’elezione che non può certo escludersi possa avvenire sul filo di lana. Oppure se, a causa di tali assenze, un candidato (indovinate chi) mancasse la salita al Quirinale per pochi voti a vantaggio di un altro, sulla cui elezione si proietterebbe una simile ombra per tutto il settennato (per non dire di possibili conflitti di attribuzioni dinanzi alla Corte costituzionale: un caso Trump in salsa italiana che francamente si dovrebbe a tutti i costi evitare).

Né si può ipotizzare, a causa dell’aumento di tali assenze, l’interruzione dello scrutinio in corso non solo per il caos politico-istituzionale che ne deriverebbe (prorogatio dell’attuale Capo dello Stato o sua supplenza da parte della presidente del Senato?) ma anche perché l’unico motivo costituzionalmente previsto in tal senso è la mancanza del numero legale (e cioè la presenza di meno della metà dei 1009 grandi elettori) in una elezione in cui la maggioranza richiesta è rapportata non ai votanti ma agli aventi diritto al voto (i due terzi nei primi tre scrutini, la loro maggioranza dal quarto). Escludere la partecipazione da remoto dei parlamentari che non possono essere a Roma significa di fatto elevare sensibilmente tali quorum.

Il rischio che si è assunto il presidente della Camera ha peraltro discutibili ragioni giuridiche. Quando, a inizio lockdown, parte dei costituzionalisti (tra cui chi scrive) proposero la partecipazione da remoto ai lavori parlamentari che non potevano essere presenti in Aula, fu obiettato (dalle Presidenze delle Camere nazionali, non da quella del Parlamento europeo…) che la presenza fisica è dimensione essenziale della discussione parlamentare. Argomento opinabile, ma che comunque non può essere ora invocato per l’elezione del presidente della Repubblica. Il Parlamento in seduta comune è collegio elettorale. Non si discute, si vota perché qualunque dibattito in merito ai candidati li farebbe diventare inevitabilmente “di parte”, compromettendo in partenza il loro dover essere rappresentanti della “unità nazionale” così come la Costituzione richiede.

In secondo luogo, i parlamentari non contagiati hanno il diritto-dovere di raggiungere Roma per esercitare il loro mandato. Quando, a inizio lockdown, il Governo non chiarì espressamente se i parlamentari rientrassero tra quanti potevano comunque spostarsi per “comprovate esigenze lavorative”, nonostante le reiterate sollecitazioni in tal senso rivolte ad esso dai Presidenti delle Camere, costoro affermarono recisamente che “nessuna ordinanza [poteva] ostacolare la libertà di circolazione [del parlamentare] sul territorio nazionale” (così il presidente della Camera nella seduta della Giunta per il regolamento del 31 marzo 2020; v. in tal senso il comunicato della Presidente del Senato del successivo 10 aprile). Sarebbe dunque ben strano, per non dire contraddittorio, che venisse ora di fatto negato ai parlamentari privi di super green-pass il diritto, al pari degli altri colleghi, di votare per il nuovo Capo dello Stato, impedendo loro di potersi spostare.

Infine, va garantito ai parlamentari contagiati o isolati il diritto di poter votare, così come peraltro già avvenuto in alcuni consigli regionali per l’elezione dei loro delegati. Affermare, in senso contrario, che le assenze per motivi di salute ci sono sempre state, non solo non corrisponde al vero (basta scorrere gli annali parlamentari per avere conferma di come gli scrutini presidenziali sono occasione troppo solenne per essere mancata se non in casi eccezionali) ma significa fare torto alla intelligenza dei cittadini paragonando in modo ardito un’influenza (individuale) ad una pandemia (globale). Purtroppo, un decennio di sbornia populista ha introiettato la convinzione che i parlamentari sono sempre e comunque uguali ai comuni cittadini (dimenticando le loro prerogative costituzionali a garanzia del Parlamento) quando invece, proprio in ragione dell’alto ufficio ricoperto in rappresentanza della nazione, non possono incontrare limiti all’esercizio del loro mandato che hanno anzi il dovere di esercitare, specie in un’occasione così solenne come questa.

Ovviamente, la segretezza del voto da remoto andrebbe garantita (e in tal senso si sa che l’infrastruttura digitale sarebbe già pronta) come al pari andrebbe garantita la segretezza del voto di coloro che votano in presenza, evitando di prestarsi a stratagemmi (l’indicazione del voto anteponendo, posponendo o abbreviando il nome del candidato al suo cognome) da tempo denunciati (v. il discorso di Cossiga al Senato il 29 aprile 2006) e ora mastellianamente suggeriti. Come ricordato ieri su queste colonne da Giuliano Pisapia, il prossimo 18 febbraio il Parlamento europeo rinnoverà la propria presidenza in modalità ibrida, cioè sia in presenza che a distanza. Preziosa eredità di un Presidente che ha saputo individuare il limite oltre cui il rispetto delle forme procedurali degrada in vuoto formalismo che mette a repentaglio il buon funzionamento delle istituzioni, al fine di garantire ai parlamentari il diritto-dovere di assolvere al loro mandato e al Parlamento lo svolgimento delle sue funzioni, tanto più quando così solenni e delicate come nel nostro ordinamento costituzionale l’elezione del Presidente della Repubblica.