Sono già oltre centomila gli sfollati giunti in Armenia dal Nagorno Karabakh. Un esodo che testimonia come la popolazione della regione passata definitivamente sotto controllo azero non si senta rassicurata dalle garanzie offerte da Baku. Le ferite sono profonde e ancora calde. E mentre si cerca di comprendere quale possa essere il destino dei profughi e dello stesso Nagorno, le autorità dell’Azerbaigian proseguono nel processo di “normalizzazione” successivo all’operazione militare.

Negli ultimi giorni, sono stati arrestati diversi membri di quella che era l’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh e che secondo gli accordi sarà sciolta definitivamente con tutte le sue istituzioni il primo gennaio del 2024. Dopo l’ex ministro degli Esteri, David Babayan, il vicecomandante delle forze armene, David Manukyan, e il primo ministro Ruben Vardanyan, agli arresti sono finiti anche personalità come Arkady Gukasyan, Bako Saakyan e David Ishkhanyan: tutte figure di spicco della ex repubblica separatista armena. La volontà di Baku, a questo punto, è sempre più chiara, ed è quella di mettere la parola “fine” a quello che è sempre stato considerato un problema primario per la sua sicurezza e per la stabilità.

Adesso però resta da capire anche quale possa essere il futuro del Caucaso, posto che il blitzkrieg azero ha avuto come effetto non solo quello di riprendere il controllo del Nagorno Karabakh, ma anche quello di mostrare cosa bolle davvero in quella delicata regione. Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan è atteso a Granada per il vertice della Comunità politica europea. Doveva essere il luogo prescelto per il summit con il presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev, a cui avrebbero dovuto partecipare anche i leader di Francia e Germania. Aliyev, tuttavia, ha rifiutato il vertice spagnolo per il “sentimento anti-azero” dei delegati coinvolti. Il riferimento è alle più recenti dichiarazioni da parte dei ministri degli Esteri di Parigi e Berlino.

Il governo tedesco ha espresso il desiderio che gli osservatori delle Nazioni Unite si stabiliscano permanentemente nel Nagorno Karabakh per garantire il rispetto degli accordi e dei diritti della popolazione locale. La Francia, invece, dopo che in questi giorni si è espressa pubblicamente a favore di Erevan condannando la svolta militare di Baku, ha offerto un accordo all’Armenia per la fornitura di armi. “La Francia ha accettato di firmare un accordo con l’Armenia sulla fornitura di materiale militare per garantire la sicurezza di Erevan” ha detto la ministra Catherine Colonna nella capitale armena. E il messaggio non è piaciuto all’Azerbaigian, dal momento che, pure se l’Armenia non è mai stata coinvolta direttamente nel conflitto, il segnale giunto da una delle principali potenze europee è quello del supporto a un Paese con cui la tensione è evidente.

L’accordo sulle armi non piace inoltre nemmeno alla Russia, che da tempo ha fatto capire di avere più di un problema con il vecchio alleato. Dopo che Pashinyan ha ammesso di ritenere la dipendenza strategica da Mosca un errore, il Cremlino ha più volte fatto capire al Paese caucasico che le più recenti decisioni strategiche avrebbero messo a dura prova la loro amicizia. Erevan ha continuato a muoversi con questo equilibrismo dando il via alle esercitazioni militari con gli Stati Uniti. Poi è arrivata l’operazione militare azera, con i peacekeeper russi che di fatto non hanno evitato la conquista del Nagorno ma sono intervenuti solo per proteggere la fuga degli armeni attraverso Lachin.

I rapporti tra Pashinyan e Vladimir Putin appaiono gelidi e la conferma è arrivata non solo con l’accordo sulle armi con Parigi, ma anche (se non soprattutto) con la scelta del parlamento armeno di ratificare lo Statuto di Roma, il trattato istitutivo della Corte penale internazionale. Aderendo alla Corte, l’Armenia ha di fatto lanciato l’ultima sfida a Putin, sul quale pende un mandato di arresto internazionale con l’accusa di “deportazione” dei bambini ucraini.