«Ma quale cabina tecnica per decidere come gestire i fondi europei! Se la politica rinuncia a esercitare un ruolo di guida e alle responsabilità che questo comporta, allora non è degna di esistere. Chi governa, poi, ha il dovere, non solo il diritto, di decidere il futuro dell’Italia. Ed è su questo che verrà giudicato dai cittadini-elettori». Ad affermarlo, in questa intervista a Il Riformista è uno dei più autorevoli economisti europei: Jean Paul Fitoussi, Professore emerito all’Institut d’Etudes Politiques di Parigi e alla Luiss di Roma. È attualmente direttore di ricerca all’Observatoire francois des conjonctures economiques, istituto di ricerca economica e previsione. È autore di numerose opere tra cui La misura sbagliata delle nostre vite.

Perché il PIL non basta più per valutare benessere e progresso sociale (Etas 2010 e 2013), scritto con Joseph Stiglitz e Amartya Sen; Il teorema del lampione o come mettere fine alla sofferenza sociale (Einaudi 2013) e La neolingua dell’economia. Ovvero come dire a un malato che è in buona salute (Einaudi 2019). Quanto poi alla polemica su Mes sì Mes no, Fitoussi non le manda a dire: «A me sembra una cosa da pazzi. Sia chiaro: lungi da me “santificare” il Mes. Nel suo passato c’è una vicenda, quella greca, che ha rappresentato una pagina nera per l’Europa, tanti e possenti erano i vincoli posti a quel prestito. Ma oggi le cose stanno in modo radicalmente diverso: l’unico vincolo esistente è quello di usare quei fondi per la sanità. Voglio guardare negli occhi chi, in piena crisi pandemica, ha l’ardire di contestare questo indirizzo».

Professor Fitoussi, in Italia, Paese che lei conosce molto bene, si continua a litigare, anche all’interno della coalizione che sostiene il Governo Conte, su Mes sì, Mes no, Mes come… Che idea ha in proposito?
È vero che il Mes è l’istituzione più antipatica che si possa incontrare. Basta pensare a ciò che è avvenuto con la Grecia. In quel frangente, attraverso il Mes l’Europa mise delle condizioni, dei vincoli, incredibili, che hanno affogato quel Paese. Pesa questa reputazione. Ma questa volta è diverso. Perché non c’è condizionalità se non una che è stata accettata fin dall’inizio, e cioè che questo denaro serve per il sistema sanitario. Non ci sono altri vincoli oltre questo; un “vincolo” che in una crisi pandemica tutt’altro che risolta, a me pare sacrosanto. Non si può prendere questo denaro per i porti, per le infrastrutture, ma per il sistema sanitario sì. Stiamo parlando, è bene ricordarlo, di prestiti, non di un denaro regalato. Ma sono dei prestiti a un tasso più basso di quelli che l’Italia potrebbe avere da sé, senza la firma dell’Europa. La mia filosofia è che nella situazione in cui siamo prendiamo il denaro e poi vediamo. Ma prima prendiamo il denaro.

Un altro terreno di scontro in Italia riguarda il Recovery Fund e, soprattutto, chi dovrebbe gestire il Recovery Plan…
Sul Recovery Fund mi lasci dire solo una cosa: lasciamo perdere definizioni ridondanti, non ha niente di storico, è normale in un’Unione che deve avere solidarietà. Stiamo parlando della più grave crisi che il mondo ha conosciuto. Si è trattato di un passo importante verso la mutualizzazione del debito. Di questo si parlava da quarant’anni, ma non si è fatto niente in un’Europa prigioniera di un iper rigorismo che ha provocato disastri sociali a non finire. Il problema resta quello della condizionalità. Per questo continuo a pensare che la vera proposta solidale sarebbero stati, e continuano a esserlo, gli Eurobonds. D’altro canto, per avere una sovranità europea bisogna avere una fiscalità europea, tasse europee. Il fatto è che abbiamo dato troppa importanza al debito pubblico e così facendo siamo stati perdenti, perché abbiamo tralasciato di investire, ad esempio, nelle infrastrutture per favorire la crescita. È un dato di fatto che il debito pubblico nella Storia è sempre diminuito solo quando c’è stata crescita e inflazione, mai con recessione e deflazione. Detto questo, va subito aggiunto che il Recovery Fund è un’opportunità straordinaria che sarebbe da pazzi non utilizzare, specie per l’Italia che a quello che risulta è il Paese che più ne beneficerebbe in quantità…

Eppure a differenza della Germania, che ha già presentato il suo Recovery Plan per 25 miliardi di euro, l’Italia rischia di essere in coda tra i Paesi che beneficiano di questi soldi…
Qui siamo di fronte a un “miracolo” alla rovescia, che faccio davvero fatica a comprendere. Ma come: l’Italia è il Paese che, in termini di soldi europei, è quello che ne beneficia di più ed è ancora lì a discutere, polemizzare, invece di darsi una mossa…

La discussione, che divide anche le forze politiche che sostengono il Governo Conte, è su chi dovrebbe presiedere alla gestione di questi fondi europei. C’è chi ipotizza la costituzione di una sorta di cabina di regia fatta da tecnici. Altri, invece, ribattono che è la politica che deve farsi carico di questo compito. Lei, professor Fitoussi, da che parte sta?
Ma è ovvio che è la politica che deve assumere questa responsabilità! Quello di cui l’Europa soffre di più è il deficit di democrazia. E questo riguarda, sia pur con gradualità diverse, anche i singoli Stati dell’Unione. Ma se il sistema politico non vuole assumersi le responsabilità che gli competono sul Recovery Fund, a che serve la politica? A niente. Non si fa una cabina tecnica, questa sarebbe la cosa più stupida di cui ho sentito parlare. La politica comanda. La politica decide. L’uso del Recovery Fund è un disegno per il futuro dell’Italia. E se la politica non vuole mettere mano nel disegno per il futuro del Paese, è diventata pazza. Qui non si tratta di non utilizzare le competenze tecniche, ma di non fare il sostitutivo della politica. Questo, purtroppo, mi pare un errore in cui l’Italia cade troppo spesso: penso al Governo dei tecnici, solo per fare un esempio, come se la tecnicalità, in ogni campo della vita sociale, fosse qualcosa di neutro, di oggettivo. Ma non è così. Perseverare in questo equivoco, significa allargare ancora di più la faglia che esiste, ed è già ai limiti di guardia, tra l’opinione pubblica e la classe politica. E qui ritorno al deficit di democrazia a cui accennavo in precedenza.

Molto si discute anche sulle priorità degli investimenti. Un tema questo, che è stato al centro di nostre precedenti conversazioni. Se lei dovesse puntare su una priorità verso cui indirizzare i fondi europei, quale indicherebbe?
La disoccupazione. Non ho alcuna esitazione in questa scelta. Il che ci rimanda alla necessità di uno Stato imprenditore che è poi il portato di una lezione che nei decenni di iper rigorismo avremmo dovuto imparare e di cui far tesoro, e cioè non esiste virtù in economia: la corsa verso il rigore di bilancio può trasformarsi, come è stato, in una deleteria corsa verso la depressione economica.

Combattere la disoccupazione attraverso un piano straordinario che guarda ad alcuni settori strategici?
Il settore sociale è il più strategico di tutti. Perché è dal settore sociale che tutto dipende. E dunque, occorre agire in questo campo, con due priorità: la disoccupazione e la povertà. Se vogliamo avere un Paese che è dinamico, bisogna che ci sia la piena occupazione e che il livello di povertà sia molto basso. Questi sono i primi obiettivi. A cui aggiungere l’impegno a mettere a posto le infrastrutture, soprattutto quelle che si sono rilevate assolutamente deficitarie, inadeguate a far fronte alla crisi del Covid: mi riferisco al sistema sanitario, ad esempio. Ma anche della scuola, dell’università, della ricerca. E parlo anche del sistema viatico, così come delle nuove tecnologie. Sappiamo che bisognerà ricostruire i sistemi sanitari. Costerà molto ma abbiamo visto quanto il settore sia un bene pubblico che va difeso. Poi bisognerà ricostruire il sistema educativo e le infrastrutture che negli ultimi anni sono state abbandonate. A forza di guardare al mercato ci siamo dimenticati dei luoghi dove si svolgono i mercati, ossia gli ospedali, le scuole, le strade, le autostrade, i ponti. Puntare, anche attraverso l’intervento pubblico, su questi settori strategici è investire sul futuro, e lo è anche se questo significa, nel presente, allargare i vincoli di bilancio. Non farlo, significa condannarsi non solo alla marginalità nella competizione internazionale ma favorire le spinte sovraniste nazionali, che sono una risposta totalmente sbagliata a un problema reale che le forze democratiche, progressiste, di sinistra, chiamiamole come si vuole, hanno per troppo tempo colpevolmente ignorato o comunque sottovalutato: parlo del malessere sociale. Quando le disuguaglianze sociali diventano troppo grandi, nelle società si comincia a intravedere la violenza. Ecco, mettiamo il lampione sui fattori che generano il benessere sociale, e mettiamo i risultati sotto il naso di chi ci governa. Io, per ogni misura presa, vorrei sapere quali sono le conseguenze sull’educazione o sul capitale umano. E se queste ultime diminuissero preferirei si cambiasse strada. Bisogna dare tutta la priorità possibile al benessere e non al Pil. Di una cosa sono convinto oggi più che mai: o l’Europa sarà federale e solidale, o non sarà. Non credo vi siano altre soluzioni che funzionerebbero. Insomma, c’è tanto ma davvero tanto da fare. Non ci deve essere esitazione a prendere i soldi e a cominciare. In fretta, perché più aspettiamo più la crisi economica sarà grave e le sue ricadute sociali incurabili.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.